
Una premessa necessaria: nel momento in cui sto scrivendo questo pezzo, non abbiamo notizie certe sulla sorte degli attivisti della Global Sumud Flotilla. Sappiamo che la missione umanitaria è stata abbordata dalla marina israeliana, ci sono riscontri sui primi arresti e il governo israeliano ha diffuso i video dei primi fermi (tra cui quello di Greta Thunberg). In questo contesto, la priorità assoluta è che nessuno si faccia del male, che le autorità israeliane rilascino gli arrestati in tempi brevissimi, senza ulteriori prevaricazioni.
Il tempo dell'analisi è però già arrivato. A partire da una considerazione. Non c’è da stupirsi del fatto che l’azione della Global Sumud Flotilla abbia generato un dibattito così acceso e provocato reazioni così sgangherate. Lo spirito profondo dell’iniziativa, al di là delle sue declinazioni pratiche, era essenzialmente quello di trovare una risposta a una questione che da mesi interroga le coscienze di milioni di persone comuni. Una domanda che ognuno di noi avrà fatto o si sarà sentito fare decine di volte: cosa fare di fronte al massacro che si sta consumando a Gaza? Le risposte, diciamoci la verità, erano sempre le stesse: avere consapevolezza di cosa sta accadendo, fare pressione sul proprio governo, non rassegnarsi all’orrore. Tutto giusto, per carità. Ma anche così vano, velleitario, generico.
La Flotilla e le centinaia di migliaia di persone che nelle ultime settimane sono scese in piazza, invece, hanno mostrato che un altro modo, prima ancora che un altro mondo, è possibile. Che i popoli possono fare la storia o, almeno, prendersi la scena, avere un ruolo importante. E che c’è una strada diversa a quella della lenta assuefazione, che poi porta alla normalizzazione dell’orrore. Con una parola chiave, di cui tanti storici si sono occupati in passato: mobilitazione, intesa come capacità di mettere in movimento energie e pulsioni diverse, per il tramite di iniziative più o meno piccole ma che funzionano esattamente come un faro. Luci che indirizzano, simboli che stimolano altre lotte.
Non è semplice e non sempre ciò accade. Tante iniziative finiscono per diventare velleitarie, alcune risultano anche controproducenti. Così non è stato per la Global Sumud Flotilla, probabilmente anche in virtù della natura complessa e articolata dell’operazione. In effetti, non si può guardare alla vicenda senza tenere conto dei diversi piani in cui si è articolata la scommessa della Flotilla: quello pratico, la consegna degli aiuti umanitari a una popolazione stremata da due anni di guerra asimmetrica; quello politico, che ha contribuito a influenzare le scelte dei governi europei, probabilmente accelerando processi già in atto; quello per così dire “ideologico”, che ha determinato la radicalizzazione della coscienza collettiva intorno a concetti semplici, l’apertura di canali umanitari, la fine della guerra, l’autodeterminazione del popolo palestinese.
Si sta discutendo molto in queste ore sul “successo” della missione. Ecco, sebbene sia evidente che si tratta di un dibattito che risente proprio della polarizzazione di cui parlavamo prima, ci sono diversi punti fermi, indiscutibili. L’attenzione mediatica, lungi dall’essere fine a sé stessa, ha evidenziato l’urgenza, la tremenda urgenza, dell’apertura di veri canali umanitari. La distribuzione del cibo nella Striscia non solo è insufficiente, ma risponde anche a logiche punitive e aberranti (come il tragico gioco delle calorie giornaliere da non superare). La stessa scelta di andare avanti, malgrado il blocco navale e le minacce del governo di Tel Aviv, va letta in un contesto più ampio: la necessità di "rompere l'assedio" non come prova di forza (del resto, come potrebbero farlo poche decine di barche a vela?), ma come atto di ribellione a una deriva irreversibile, a una pressione costante sulla pelle di centinaia di migliaia di persone.
È in questo senso che la Flotilla non è mai stata "solo" una missione umanitaria, bensì intrinsecamente politica.
L'epilogo della missione ha mostrato poi il modo in cui il governo israeliano agisce. Brutalmente, fregandosene del diritto internazionale, dei rapporti diplomatici, di prassi e regolamenti. L'abbordaggio è avvenuto in acque internazionali, in violazione dei trattati e malgrado si trattasse di cittadini stranieri. Il senso di impunità che guida le mosse di Netanyahu e dei suoi sodali è apparso in tutta la sua evidenza: una missione umanitaria è stata dapprima diffamata con l'accusa di prendere soldi da Hamas, poi minacciata, infine colpita da "azioni dimostrative" in acque di altri Stati o internazionali. Di fronte a tali atti di prepotenza i governi europei hanno sostanzialmente fatto spallucce, limitandosi a qualche dichiarazione di facciata. Del resto, cosa aspettarsi da chi ancora si interroga sulle sanzioni dopo decine di migliaia di morti e una distruzione che ha pochi precedenti nella storia recente.
Per carità di patria non indugerò sull'indecente gestione della vicenda da parte della nostra presidente del Consiglio, che è riuscita ad andare oltre i falchi israeliani, attribuendo a una missione umanitaria disarmata e non-violenta responsabilità su un eventuale fallimento delle trattative sul piano presentato da Donald Trump e chiedendo provocatoriamente se gli attivisti della Flotilla non avessero come scopo quello di "provocare un'escalation" (capito, dopo due anni di distruzioni e massacri…). Spingendosi ben oltre il ridicolo nel dichiarare che l'azione di oltre cento barche e di un migliaio di attivisti da tutto il mondo fosse stata pensata per mettere in difficoltà il suo governo.
Al di là delle italiche miserie, il cortocircuito che ha determinato la Flotilla è evidente. Perché ha agito da catalizzatore dell'enorme dissenso dell'opinione pubblica nei confronti dell'inazione dei governi europei, diventando una bandiera per milioni di persone e impedendo che la "fatigue" da overload di informazioni si trasformasse in assuefazione o, peggio ancora, indifferenza. Ponendo i governi di fronte alla realtà dei fatti: quando si ha paura di una missione umanitaria di attivisti disarmati su barche cariche solo di cibo, evidentemente c'è qualcosa di profondamente sbagliato. E ci sono equilibri che si reggono sull'ipocrisia o sulla connivenza, piuttosto che su principi di diritto.
La reazione spontanea all'abbordaggio illegale è un manifesto: migliaia di persone nelle piazze, blocchi stradali e proteste. Quella organizzata, lo sciopero generale, è un tentativo di cristallizzare un momento che può rappresentare un punto di svolta non solo nella "narrazione" del conflitto. In tal senso, il sacrificio dei militanti della Flotilla, che hanno passato giorni di grande incertezza e paura, finendo con l'essere arrestati in acque internazionali in un blitz illegale delle forze israeliane, è un insegnamento importante. Soprattutto perché arriva consapevolmente, con una scelta che si può giudicare controversa e discutibile e sulla quale si era espresso addirittura il presidente della Repubblica italiana. Ma che è stata certamente legittima e coerente: un grande gesto di ribellione contro le plurime violazioni del diritto internazionale da parte israeliana, ma anche contro chi pensa che tutto sia sempre negoziabile, tutto svendibile. Contro quelli che ci dicono che, in fondo, possiamo girarci dall'altra parte finché le cose non ci riguardano.
