Opinioni

L’insopportabile ipocrisia del governo Meloni su Gaza e sui veri piani di Netanyahu

Il governo italiano vota contro le sanzioni a Israele, conferma che continuerà a commerciare in armi e sistemi di difesa, non si allinea agli alleati occidentali nella linea dura contro Netanyahu. Cosa resta? Una posizione ipocrita e funzionale alla linea dura israeliana.
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Partiamo dalle notizie, come andrebbe sempre fatto. L’Unione Europea avvierà il riesame dell’articolo 2 dell’accordo di associazione con Israele, nella parte in cui prevede che i rapporti tra Bruxelles e Tel Aviv siano basati sul rispetto dei diritti umani. È solo il primo passo di un percorso che si preannuncia lungo e complesso, perché per la revisione degli accordi occorre l’unanimità e, al momento, tale possibilità semplicemente non esiste. L’Italia, in ogni caso, ha votato contro, non allineandosi a quella “forte maggioranza” (sono parole dell’Alta rappresentante Ue per gli Affari Esteri Kaja Kallas) che sta spingendo per una condanna netta delle azioni del governo Netanyahu.

Oggi, invece, la maggioranza ha bocciato la mozione Bonelli, Conte, Schlein, Fratoianni e altri in cui si chiedeva di “riconoscere la Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa”, di “sostenere, in tutte le sedi internazionali e multilaterali, ogni iniziativa volta a esigere il rispetto immediato del cessate il fuoco, la liberazione incondizionata degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, la protezione della popolazione civile di Gaza e la fine delle violenze nei territori palestinesi occupati”, ma soprattutto di condannare “il Piano «Carri di Gedeone», atto finale mirato a concludere un progetto di annientamento sistematico di una popolazione martoriata dal conflitto in atto nella Striscia di Gaza” e sospendere sia “le autorizzazioni di vendita di armi allo Stato di Israele” che le importazioni di armi.

Mentre è stata bocciata ogni ipotesi di lavorare affinché siano imposte sanzioni a Israele, è stata approvata una mozione della maggioranza. Nel testo, ci si limita a chiedere blandamente la fine delle ostilità, si condannano, ma tutto sommato giustificano, le scelte del premier Netanyahu e si esprimono parole dure solo per quanto concerne la situazione umanitaria nella Striscia. Immaginiamo la preoccupazione a Tel Aviv, ecco.

Nel frattempo, per non farci mandare nulla, il governo italiano sembra intenzionato a confermare la collaborazione strategica in materia di difesa proprio con Israele, come appare chiaro dalla discussione sullo schema di decreto presentato dal ministro Crosetto come proseguimento di programmi di riarmo avviati nel 2020. Lo leggiamo da Michele Gambirasi sul Manifesto:

Il programma, la cui terza fase è stata posta ieri in votazione, avrà un costo di 1,6 miliardi di euro e prevede anche la conversione di due jet Gulfstream G550 in velivoli militari con funzioni prevalentemente di spionaggio. Per farlo l'Italia acquisterà tecnologia direttamente da Tel Aviv: la conversione è operata dalla società israeliana Elta Systems Ltd, parte del gruppo Israel Aerospace Industries, di proprietà del governo. Il provvedimento, in scadenza il 26 maggio, era già arrivato al Senato la scorsa settimana ed era stato approvato con la contrarietà del Movimento 5 stelle e l'astensione del Partito democratico, in quanto il programma era iniziato nel 2020, prima dell'ultima offensiva israeliana a Gaza e del recente blocco degli aiuti umanitari. Ieri alla Camera dove la commissione bilancio il 6 maggio ha liquidato con parere favorevole il decreto con una discussione durata appena cinque minuti – la commissione difesa ha nuovamente votato in modo favorevole al provvedimento.

Ecco, mettendo in fila queste tre notizie abbiamo esattamente il quadro dell'approccio italiano alla questione Gaza, che oscilla tra l'ipocrisia, la propaganda, la condanna superficiale e di facciata delle atrocità sulla popolazione. "Business as usual", insomma.

Già qualche giorno fa, vi avevamo raccontato di come, nel corso del suo intervento alla Camera dei deputati, Giorgia Meloni non fosse riuscita a dire una chiara parola di condanna sull’operato del governo israeliano. Oggi, dopo il comunicato congiunto di Francia, Gran Bretagna e Canada, il fastidio che lo stesso Donald Trump ha lasciato trapelare, il disagio che finanche partner storici di Israele (come l’Olanda) mostrano davanti alle immagini della catastrofe di Gaza, l’atteggiamento del nostro governo appare ancor più inadeguato. E non possono bastare le parole che ad esempio il ministro Guido Crosetto affida al taccuino di Paola Di Caro sul Corriere della Sera:

"Netanyahu, a mio personale avviso, sta sbagliando: ciò che sta facendo ora si deve fermare. È inaccettabile per i valori che vogliamo difendere. Per due motivi, in primis. Uno è chiaramente umanitario, e non c'è nemmeno da descriverlo. È sotto gli occhi di tutti. L'altro è politico. Il governo israeliano sta rafforzando Hamas. Ogni morte di un civile chiama un nuovo nemico, ogni uomo che ha perso figli o moglie o fratelli sarà pronto a odiare e combattere Israele per tutta la sua vita. Per odio. Si sta creando una drammatica spirale senza fine”.

Manca, in tutta evidenza, una condanna chiara della risposta israeliana, nella misura in cui disegna uno scenario per cui, semplicemente, l’intero popolo palestinese sta pagando il prezzo di proprie scelte. Continuando a parlare di quella che al momento è una formula vuota, “due popoli-due stati”, si finisce per legittimare una visione per cui, sì gli israeliani stanno “esagerando” e dovrebbero facilitare l’arrivo di aiuti umanitari, ma non devono subire le conseguenze politiche ed economiche delle azioni messe in atto a Gaza in questi mesi. È una linea funzionale a quella di Netanyahu, sembra piuttosto evidente. Ne scrive Marina Corradi su Avvenire, in un pezzo titolato “Occhi chiusi sulla vergogna”:

Alla Knesset, Netanyahu ha detto che acconsente a un passaggio minimo di aiuti solo per mantenere i rapporti con i grandi finanziatori stranieri: che faticano a difendere le ragioni di Israele, davanti alle immagini da Gaza.

Così 100 Tir di aiuti hanno varcato il confine, ma ne occorrerebbero, secondo le Nazioni Unite, 500 al giorno. Le vite di migliaia di bambini sono appese a questi aiuti, dopo che già ventimila coetanei sono morti sotto le bombe. Ventimila: figli di padri di Hamas, oppure semplicemente palestinesi, di uno, tre, sei anni, o neonati. Non è che leggendo queste cifre cerchiamo di scivolare via, di non comprendere? O forse è proprio quella cifra così assurdamente alta, che non ci fa vedere come ciascuno di quei figli fosse esattamente uguale ai nostri? Innocenti caduti in una rappresaglia per altri innocenti massacrati in una notte, il 7 ottobre. Rappresaglia che poi non si è arrestata, che sembra inarrestabile: che sembra desiderio di cancellare un popolo.

Dopo quelli che Andrea Fabozzi sul Manifesto definisce “venti mesi di orrore”, non c’è più spazio per posizioni di compromesso e condanne ipocrite o timide. Servono scelte immediate, serve fermare la carneficina in corso, assistere una popolazione martoriata e mettere un freno all’escalation di violenza e distruzione. Poi, certo, si potrà, si dovrà, cominciare a immaginare un futuro, un assetto, una possibile via d’uscita dal caos. Ma ora è il tempo dell’azione, di “cogliere quei segnali di cambiamento” che, seppur poca cosa rispetto all’orrore cui stiamo assistendo, possono servire allo scopo. Senza dimenticare, come scrive sempre Il Manifesto, la portata di ciò che è accaduto:

Questo aprire un po' gli occhi sull'orrore, tardivo e scarso -ancora una volta con l'indegna eccezione del governo italiano – dunque non può consegnarci una fiducia nei governanti né nelle istituzioni sovranazionali che non hanno fermato Israele. Ma deve spingerci a gridare più forte l'atroce verità della pulizia etnica, raddoppiare l'impegno per incalzare chi al potere e nei media avrà sempre meno alibi per non vederla.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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