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La Cassa per il Mezzogiorno: quando il Sud era questione nazionale

Il Sud è scomparso dall’azione governativa da oltre vent’anni. La questione meridionale è stata soppiantata da un’artificiale questione settentrionale, ma, come ha comprovato la scelta del governo tedesco, finanziando lo sviluppo dei lander orientali, il tema dell’intervento pubblico statale, per la crescita economica delle aree depresse, rimane attuale.
A cura di Marcello Ravveduto
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Basta leggere questo dato dell’ultimo rapporto Svimez per avere un’idea della situazione: "il Pil nazionale ha registrato una flessione dello 0,2%, per effetto dell’ampia forbice tra un Centro-Nord positivo (+2%) e un Mezzogiorno fortemente in ribasso (-7,2%)". Le due macro-aree del Pese si allontano sempre più con il Sud che sembra ormai una piattaforma alla deriva. È diventato un argomento di discussione culturale e nulla più. Da quando è terminato l’intervento pubblico il Mezzogiorno è un’appendice del Paese e, come qualcuno ha scritto, è una “palla al piede per lo sviluppo italiano”.

È scomparso dall’azione governativa ma, con i suoi paradossi, è ben presente nella narrazione cinematografica e televisiva italiana, sempre come esempio di realtà negative che attentato alla credibilità del Paese.

Nel ventennio berlusconiano, nella breve stagione di Monti e nell’attuale Governo Renzi, quel terzo di paese che cresce anche meno della “stracciona” Grecia è scomparso non solo nelle iniziative legislative ma persino nella sostanza fisica. Dal 1994 ad oggi quanti meridionali sono stati ministri o sottosegretari con la delega per il Mezzogiorno? Provate a sforzarvi e forse ricorderete solo Nicola Cosentino al Ministero dell’economia.

Nel secondo dopoguerra tutti i partiti antifascisti avevano incluso nei loro programmi una decisa azione per lo sviluppo economico del Mezzogiorno. Le sorti del Sud erano quelle dell'Italia intera. A differenza di oggi, le idee meridionaliste erano giudicate essenziali per irrobustire i caratteri nazionali e moderni dell'Italia democratica. Per i protagonisti della guerra di Resistenza e della lotta per la Liberazione lo sviluppo del Sud, al di là degli spunti retorici e delle diverse collocazioni politiche, fu costantemente la stella polare del pieno compimento del processo risorgimentale.

Il crollo del fascismo e la successiva divisione dello Stato in due forme istituzionali diverse (la Repubblica di Salò e Il Regno del Sud), con due regimi differenti (dittatura nazifascista e governo di Unità nazionale), determinò una consapevolezza collettiva, oltre le consuete élites dell’Italia liberale, di una nazione voluta, di una imprescindibile riaffermazione di dignità nazionale. La crescita del meridione era un atto necessario per dimostrare al mondo intero che l’Italia, pur sconfitta e lacerata dal controllo di contrapposte forze di occupazione, si era rialzata più forte di prima. Giorgio Tupini, in un intervento sulla rivista “Prospettive meridionali” del maggio 1955, definì infatti l’intervento pubblico dello Stato a favore del Sud come il «Risorgimento del Mezzogiorno».

In queste logica è impiantata la costituzione della Svimez, nato tra la fine del 1946 e il gennaio 1947, dall'incontro di Morandi con Saraceno e gli uomini del primo Iri nel contesto delle opportunità presentatesi a tutti gli operatori economici italiani con la Ricostruzione e la politica americana di aiuti e di sostegno allo sviluppo. Le radici culturali della nascita della Svimez sono state identificate da Piero Barucci attraverso la formula dell'incontro tra «intelligenza tecnica» e «valori della Resistenza». I due promotori dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno esprimevano sia concezioni laico-risorgimentali che cattoliche dell'organizzazione delle istituzioni, dell'economia e della società. In particolare, l'intelligenza tecnica degli uomini dell'Iri (o ad esso vicini) si riversò nella Svimez con il doppio bagaglio del meridionalismo tecnocratico di ispirazione nittiana e del solidarismo attivo di ispirazione cristiana.

Tuttavia, proprio nel meridionalismo dell'immediato dopoguerra, ebbe il massimo ruolo la componente laica, sia di centro che di sinistra, e il suo proposito di rafforzamento della «nazione industriale» si dispiegò, per quanto possa apparire contraddittorio, in una sorta di intelligente pragmatismo dai robusti riferimenti culturali e ideali. Ad esso diedero respiro i primi governi post-resistenziali, da Parri a De Gasperi, mentre la componente democristiana cominciò ad affermarsi dalla seconda metà degli anni cinquanta. Sarà proprio lo statista trentino a caratterizzare il governo della Ricostruzione intorno alla scelta di un intervento straordinario per il Sud istituendo con la legge 646 del 10 agosto 1950 la Cassa per il Mezzogiorno con l’obiettivo di dare nuova speranza a «una terra dimenticata da Dio».

Al Presidente del Consiglio, segretario del maggiore partito italiano, e ai suoi ministri collaboratori, suggerirei di andare a rileggere la relazione con cui il Governo De Gasperi propose al Parlamento, il 17 marzo 1950 (cioè nel giorno in cui si festeggiava l’89esimo anniversario dell’Unità d’Italia), l’istituzione della “Cassa per opere di pubblico interesse nell’Italia meridionale”.

Ecco cosa si legge: "Il programma… non solo corrisponde ad un principio di giustizia sociale e ad un’esigenza di migliore distribuzione della ricchezza nazionale, ma ridonda a beneficio dell’intera Nazione… perché, risollevandosi la possibilità di consumi nell’Italia meridionale, vantaggio notevole deriverà alle possibilità di collocamento di prodotti industriali da parte di aziende delle altre regioni, sicché tutti risentiremo delle favorevoli conseguenze dell’attuazione del programma che sarà fonte di nuove ricchezze per l’Italia".

Il Mezzogiorno non è il Sud, è l’Italia intera. Una condizione reale ieri e oggi. Come confermano i dati e come gli analisti dichiarano il nostro Paese senza una nuova crescita di questa parte dello Stivale non potrà sostenere la concorrenza spietata della Globalizzazione. Nel 1950 c’era una lungimiranza della classe dirigente nazionale, soprattutto di quella settentrionale che aveva fatto la Resistenza, imparagonabile a quella odierna. Per questo non smetteremo mai di chiamarli Padri della Patria.

Purtroppo questi sono gli effetti di una seconda Repubblica ristrutturatasi intorno al paradigma della Lega: una forza politica di massa, ma di carattere locale, che si contrappone ai partiti nazionali. Un contenitore trasversale e interclassista che raccoglie il malcontento dei cittadini settentrionali stufi di pagare le tasse e liberati (dopo la caduta del Muro di Berlino) dalle appartenenze ideologiche. Finisce il comunismo e comincia il leghismo. Un credo che fomenta la lotta al centralismo assistenzialista utilizzando il Sud come capro espiatorio. All’anticomunismo si sostituisce l’antistatalismo, il localismo, il secessionismo sostenuti da un imperante voglia di deregulation. I partiti fingono di non vedere, al massimo criminalizzano il voto leghista che, invece, lentamente aggrega un blocco sociale in cui si riconosco tanto il piccolo padroncino evasore del nordest (ex elettore democristiano), quanto l’operaio della Fiom del nordovest (ex elettore comunista), privato dell’identità di classe.

Così muore la Questione meridionale dando vita ad un’artificiale “Questione settentrionale”. Se nel primo caso si interveniva per creare condizioni di sviluppo, nel secondo si chiede di difendere la ricchezza acquisita non solo nei confronti dei competitori internazionali ma anche nei riguardi dei connazionali. Altro che Risorgimento e Resistenza, siamo piombati indietro al Medioevo dei comuni.

La Cassa per il Mezzogiorno, sotto i colpi inferti dalla crociata antistatalista, viene allora ricordata semplicemente come uno strumento governativo che fino al 1984 ha gestito circa 100 mila miliardi per infrastrutture agricole e industriali e provvedimenti per l’occupazione: «la gigantesca attività della Cassa si disperde su un area troppo vasta, spesso senza aver preventivamente acquisito informazioni sulle aree in cui realizzare gli investimenti e sugli effetti nel medio e lungo periodo. A ciò si aggiunge la piaga della corruzione, che spinge ad utilizzare il denaro pubblico al fine di creare ed alimentare le clientele dei partiti e interessi particolari».

Eppure l’intervento strategico dello Stato rimane un dato su cui riflettere non come soluzione congiunturale ma quale fattore strutturale di crescita. Non v’è dubbio che a certe condizioni l’immissione di finanziamenti pubblici può alterare il mercato e creare un effetto dopante con le relative crisi d’astinenza. Ma guardiamo al caso della Germania. Il paese che chiede più sacrifici e maggiore adesione alle politiche di austerity dell’Unione è anche quello che più ha iniettato, negli ultimi vent’anni, un ingente flusso di denaro pubblico per risollevare i lander dell’ex Repubblica democratica tedesca. Sono stati realizzati 6600 chilometri di strade, di cui 715 di autostrade (rispetto ai 57 del Sud Italia), si sono abbattuti e ricostruiti interi quartieri di città degradate (con la trasformazione di Berlino in centro turistico mondiale), le regioni orientali investono l’1,7% del Pil in ricerca e sviluppo, sono state costruite linee ferroviarie elettrificate per il doppio rispetto alla dotazione meridionale (con lo scandalo di Matera, che nel 2019 sarà capitale europea della Cultura, dove si può arrivare, e in malo modo, solo in auto).

In 58 anni, dall’avvio della Cassa per il Mezzogiorno al 2008, sono stati investiti al Sud 342,5 miliardi di euro. In Germania Est si è speso in ventidue anni quasi cinque volte in più: settanta miliardi di euro in media ogni anno in confronto ai sei miliardi annui destinati alle regioni meridionali. Inoltre, in Germania Est i fondi strutturali hanno riguardato il 5% delle risorse utilizzate mentre nel Sud sono state più del 40%. Ciò vuol dire che dalla fine della Cassa per il Mezzogiorno gli investimenti si sono fatti utilizzando in gran parte le risorse dell’Unione, in Germania, invece, si è intervenuto quasi esclusivamente con finanziamenti statali. Nessuno, però, si è lamentato; nessuno si è alzato nel Parlamento europeo per dire che l’intervento straordinario tedesco alterava la legge del mercato e falsava la concorrenza tra operatori economici virtuosi e imprenditori assistiti.

Se la Germania è il nostro modello di riferimento allora il Governo, e non la direzione di un partito, dovrebbe attrezzarsi per fare come i tedeschi e smetterla di addossare colpe ad un modello di sviluppo, frutto di un’altra epoca storica, che, nonostante tutto, consentì al Mezzogiorno di vivere una breve ma intesa stagione di benessere.

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