I dirigenti pubblici ora torneranno a guadagnare più di 240mila euro l’anno

Con una sentenza destinata a segnare un cambio di rotta nella disciplina delle retribuzioni pubbliche, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che dal 2014 fissava un tetto massimo di 240mila euro lordi annui agli stipendi dei dipendenti pubblici. Quel limite, introdotto come misura straordinaria in un contesto di grave crisi economica, era diventato nel tempo una soglia fissa e generalizzata, valida per tutti i compensi erogati dalle finanze dello Stato, e in particolare per magistrati e dirigenti apicali. Secondo la Consulta, la norma ha perso il carattere di eccezionalità che ne giustificava l’esistenza e ora, la conseguenza appare chiara: una volta pubblicata la sentenza in Gazzetta ufficiale, i dipendenti pubblici con retribuzioni elevate potranno tornare a superare il tetto dei 240mila euro. Cosa vuol dire? Significa che le loro buste paga torneranno a fare riferimento al trattamento economico del Primo presidente della Corte di Cassazione, che attualmente supera i 313mila euro lordi l'anno.
Anche se riguarda direttamente una fascia ristretta della pubblica amministrazione, la decisione della Corte costituzionale avrebbe un significato più ampio e riaprirebbe il dibattito sul rapporto tra contenimento della spesa pubblica e giusto trattamento retributivo, ma anche quello sull'equilibrio tra potere esecutivo e magistratura. E soprattutto avrebbe l'obiettivo di imporre al legislatore un principio chiave, e cioè che non si possono rendere strutturali norme nate per affrontare situazioni temporanee, né sacrificare stabilmente diritti o prerogative in nome dell'emergenza.
Dal decreto Salva Italia alla soglia fissa: come è nato il limite
L'origine del tetto retributivo risale al lontano 2011, nel pieno della crisi del debito sovrano. Con il decreto "Salva Italia", il governo Monti introdusse un sistema per contenere i costi del settore pubblico, stabilendo che le retribuzioni più alte dovessero essere agganciate allo stipendio del Primo presidente della Corte di Cassazione; si trattava di un parametro variabile, collegato a una funzione istituzionale di vertice, e aggiornabile nel tempo. Nel 2014, però, il meccanismo venne profondamente modificato, e al posto del riferimento flessibile, si introdusse un tetto fisso e identico per tutti: 240mila euro lordi annui. Una cifra che operò come soglia massima invalicabile per ogni trattamento economico riconosciuto a carico dello Stato, con un impatto significativo soprattutto su alcune categorie, in primis i magistrati, che vedevano decurtate automaticamente le loro retribuzioni. Quella scelta fu giustificata con la necessità di razionalizzare la spesa pubblica in un momento di forte pressione sui conti dello Stato, ma con il passare del tempo avrebbe mostrato tutti i suoi limiti: un vincolo nato per fronteggiare un'urgenza economica si è infatti trasformato in un elemento permanente del sistema, sganciato da ogni valutazione puntuale e incapace, secondo la Corte, di tenere conto delle evoluzioni del quadro economico e istituzionale. Ed è proprio su questo punto che la Corte ha costruito appunto la sua pronuncia di incostituzionalità.
La Consulta: il limite non è più giustificato
Secondo la Corte, infatti, mantenere una soglia fissa a distanza di tanti anni dalla crisi economica equivale a rendere permanente ciò che deve essere eccezionale, e questo compromette l'equilibrio tra esigenze di contenimento della spesa e il principio di proporzionalità delle retribuzioni, oltre a ledere potenzialmente l'autonomia della magistratura. La Corte ha chiarito poi che un "tetto" alle retribuzioni può esistere, ma deve essere collegato a parametri variabili, aggiornabili nel tempo e stabiliti con criteri oggettivi e trasparenti.
Il nuovo parametro: lo stipendio del presidente della Cassazione
Con la sentenza, si torna così al modello precedente: le retribuzioni pubbliche più alte dovranno nuovamente fare riferimento allo stipendio del Primo presidente della Corte di Cassazione. Attualmente, questo ammonta a 313.080 euro lordi l'anno, somma che include lo stipendio base (241.080 euro) e un'indennità di rappresentanza (72mila euro). Diviso per 13 mensilità, equivale a circa 18.544 euro lordi al mese. Un ritorno a un parametro "mobile", che potrà crescere nel tempo e influire direttamente su tutti i trattamenti retributivi collegati.
Cosa succede ora: serve un nuovo decreto
Sentite le Commissioni parlamentari, il Governo dovrà ora intervenire con un nuovo decreto della Presidente del Consiglio, per ridefinire i criteri di determinazione del tetto retributivo; la soglia fissa dei 240mila euro non sarà più valida, ma il principio di un limite massimo resterà, anche se in forma diversa. Il nuovo sistema dovrà bilanciare il contenimento dei costi con il rispetto della dignità e della funzione di chi ricopre incarichi pubblici apicali, un equilibrio che, secondo la Corte, non può essere affidato a una cifra immutabile stabilita in un altro tempo e per altre ragioni.
Nessuna retroattività, ma cambiano i futuri stipendi
La Consulta ha anche precisato poi che la propria decisione non ha effetto retroattivo: questo significa che i compensi già corrisposti (o ridotti) in base alla soglia dei 240mila euro restano legittimi. La norma cessa di avere effetto infatti solamente dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta ufficiale. Cosa vuol dire? Significa che, da quel momento in poi, dirigenti, magistrati e alti funzionari potranno tornare a percepire stipendi superiori a 240mila euro, in base al nuovo parametro di riferimento.