
Sono ormai virali gli spezzoni di video in cui Enzo Iacchetti, a È sempre Cartabianca, risponde a Eyal Mizrahi, presidente dell’associazione Amici di Israele. Con decine di migliaia di persone uccise, mentre l'IDF entra a Gaza City, e nei giorni in cui una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite certifica che in Palestina sono stati commessi atti di genocidio, un litigio televisivo potrebbe sembrare secondario. Eppure la risposta inquisitoria di Mizrahi alle parole di Iacchetti sulla strage di bambini è rivelatrice: "Definisci bambino" mostra infatti fino a che punto possa spingersi la disumanizzazione nella retorica bellica.
Il kitsch dei bambini tra pietismo e ipocrisia
In effetti i bambini sono da sempre un feticcio retorico, il passpartout per l’empatia. Il kitsch, dopotutto, è questo: la dittatura del cuore, come la chiamava Kundera, la commozione obbligata che soffoca il pensiero critico e razionale. Il senso di protezione suscitato dai bambini, dai cuccioli, è una legge evolutiva che la politica ha imparato a trasformare in arma retorica.
Anche Giorgia Meloni usa questa strategia comunicativa quando, chiamata a rispondere sulla timidezza italiana nel contrasto ai crimini israeliani, si vanta di aver salvato bambini palestinesi: "Noi siamo la nazione al mondo che ha liberato più bambini", dichiarava la presidente del Consiglio. Non una parola sugli adulti, comunque vittime del massacro in atto. È il kitsch della retorica umanitaria: salvare i bambini, dimenticare gli adulti, tacere sulle responsabilità.
Bambini meno bambini degli altri
Quell’incalzante "definisci bambino" che Mizrahi rivolge a Iacchetti serve a depotenziare l’istinto di protezione verso le vittime più giovani: bisogna negare che siano bambini, bisogna mettere in dubbio la loro innocenza.
Questa strategia retorica non è isolata: si inserisce in una tendenza più ampia, diffusa anche in contesti democratici, a ridurre le tutele riconosciute ai minori attribuendo loro responsabilità da adulti. Non si tratta ovviamente di situazioni paragonabili, ma di una logica comune. Lo si vede nella prassi, denunciata da Amnesty, di detenzione statunitense nel centro di emergenza temporanea di Homestead, in Florida, di cui sono vittime bambini e ragazzi stranieri. Lo si nota nelle proposte di equiparare la responsabilità penale di giovani e adulti, con diversi tentativi di smantellare la giustizia minorile (il decreto Caivano è un esempio di questa tendenza). Lo si vede, più tragicamente, a Gaza, dove togliere ai bambini l’aura di innocenza induce a considerarli meno vittime.
Ci sono bambini, tipicamente non bianchi, che devono essere considerati meno bambini degli altri, per non essere tutelati, in tempo di pace, e per diventare bersagli militari legittimi, in tempo di guerra.
Non esistono bersagli legittimi tra i civili
La stessa logica che trasforma i bambini in obiettivi legittimi viene applicata, su scala più ampia, ai civili. La provocazione di Mizrahi applica proprio questa strategia retorica, che ha un impatto politico e giuridico, perché mette in discussione, fino a scardinarli, i principi fondamentali del diritto internazionale e umanitario.
Persino nel contesto bellico, in cui la violenza è legge, esistono limiti di umanità: colpire civili, distruggere abitazioni, scuole o ospedali, utilizzare armi proibite, deportare forzatamente popolazioni, torturare o uccidere prigionieri, saccheggiare risorse, impedire l’accesso a cibo, acqua e cure mediche, sono atti vietati e criminali, pure in guerra.
I diritti umani, e in particolare il diritto alla vita, non sono negoziabili. Non dipendono dall’età, dal comportamento o dall’appartenenza etnica o politica. Ridurre la protezione dei civili a un calcolo utilitaristico, distinguendo tra vittime “meritevoli” e “colpevoli”, significa scardinare la stessa base della legalità internazionale.
Che Hamas abbia commesso crimini gravissimi, tra cui l'attacco ai civili e la detenzione di ostaggi, è un fatto innegabile. Ma l’orrore non si neutralizza con altro orrore: nel diritto internazionale umanitario non esiste compensazione, la violazione di una parte non legittima la violazione dell’altra. E nessuno Stato può rivendicare giustizia facendo della rappresaglia e della punizione collettiva un metodo di azione.
Insomma, se pure l’intero popolo palestinese, bambini inclusi, fosse complice di Hamas, ciò non diminuirebbe di un grammo la gravità dei crimini commessi dal governo di Israele. Anche perché nessuno Stato ha il potere di amministrare la giustizia uccidendo.
Il negazionismo delle responsabilità criminali
La provocazione di Mizrahi arriva tuttavia a un'implicita ammissione: colpevolizzando le vittime, si confermano i crimini.
La strage non è negata, la moltitudine di persone uccise non è contestata. Ciò che viene invece messo in discussione è il riconoscimento delle vittime come tali e, prima ancora, il diritto alla vita che spetta a ogni essere umano. Non si nega l’evidenza, ma si ridefiniscono le categorie morali e giuridiche per trasformare il carnefice in giudice e il massacro in atto legittimo. I principi che vietano questi atti non sono opinioni, ma norme consolidate del diritto internazionale: le Convenzioni di Ginevra, lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, la stessa Carta delle Nazioni Unite. Ridefinire le categorie morali e giuridiche per giustificare l’uccisione di civili significa violare apertamente questi strumenti fondamentali.
Questa torsione del linguaggio non è un semplice esercizio retorico: produce effetti reali. Se la colpa può essere proiettata sui civili, se i bambini possono essere ridotti a complici, allora ogni limite salta. La violenza diventa non solo permessa, ma doverosa, non più da occultare, ma da rivendicare. È così che si passa dalla negazione del crimine al suo rovesciamento in giustizia.
In questo slittamento si misura l'attentato al diritto internazionale, non più baluardo contro la brutalità della guerra, ma terreno di conquista simbolica, dove chi dispone della forza tenta di riscrivere le regole per legittimare ciò che resta un crimine contro l'umanità.
