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Daspo urbano, legittimo il divieto di accesso a stazioni, ma non senza concreto rischio di reati

La Corte Costituzionale, con la sentenza numero 47 depositata oggi, ha dichiarato legittimo il divieto di accesso a stazioni ferroviarie, in applicazione del decreto Minniti, se sussiste un concreto pericolo di commissione di reati.
A cura di Annalisa Cangemi
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Il Daspo urbano con divieto di accesso a determinate aree delle città, come le stazioni e i piazzali antistanti gli accessi agli scali ferroviari, si può applicare nei confronti delle persone che hanno comportamenti che fanno temere la commissione di reati, ma tale misura di prevenzione non deve, "intendersi rivolta ad allontanare ‘oziosi e vagabondi'".

La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale (sentenza numero 47), che erano state sollevate dal Tribunale di Firenze, sul divieto di accesso ad aree delle infrastrutture dei servizi di trasporto e ad altre aree urbane specificamente individuate dai regolamenti comunali che, in base al cosiddetto decreto Minniti del 2017, il questore può disporre nei confronti di chi, nelle stesse aree, abbia reiteratamente commesso le violazioni di cui all'art. 9, commi 1 e 2 (cioè impedimento della loro accessibilità e fruibilità in violazione di divieti di stazionamento o di occupazione di spazi e altri illeciti specificamente indicati).

Affinché il divieto di accesso sia legittimamente disposto occorre, quindi, che vi sia un concreto pericolo di commissione di reati: pericolo che, in base alla lettera della norma, deve essere rivelato "dalla condotta tenuta" dal destinatario.

La Consulta nella sentenza di oggi ha affrontato un ricorso sollevato dal Tribunale di Firenze che nutriva dubbi sui Daspo che comporterebbero, a suo avviso, "una limitazione della libertà di circolazione del destinatario, inibendogli per un lungo periodo di tempo l'accesso ad alcune aree cittadine, di norma liberamente fruibili". Il caso finito davanti al Tribunale di Firenze riguardava un uomo che non aveva rispettato il Daspo che gli vietava l'accesso alla stazione di Santa Maria Novella e a due vie laterali, dopo essere stato sorpreso più volte a chiedere con insistenza soldi alle persone che acquistavano i biglietti alle macchinette automatiche o che facevano le scale.

In particolare, la Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sul divieto di accesso ad aree delle infrastrutture dei servizi di trasporto e ad altre aree urbane specificamente individuate dai regolamenti comunali che in applicazione del cosiddetto decreto Minniti del 2017 il questore può stabilire.

"Si deve in particolare escludere, secondo la Corte, che la norma in questione, nel subordinare la misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, faccia riferimento alla ‘sicurezza urbana' quale definita dall'art. 4 del decreto Minniti: concetto più ampio di quello contemplato dall'art. 16 Cost. quale ragione di possibili limitazioni alla libertà di circolazione, in quanto comprensivo anche del mero ‘decoro urbano'.", spiega il comunicato della Consulta.

"Il termine ‘sicurezza' – spiega la Consulta – deve essere inteso invece nel senso, coerente con la natura di misura di prevenzione atipica dell'istituto e in linea, altresì, con il dettato costituzionale, di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose".

"Affinché il divieto di accesso sia legittimamente disposto occorre, quindi, che vi sia un concreto pericolo di commissione di reati: pericolo che, in base alla lettera della norma, deve essere rivelato ‘dalla condotta tenuta' dal destinatario. Ciò esclude anche l'asserita violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.), nonché quella della garanzia convenzionale della libertà di circolazione (art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU), sotto il profilo della carenza di precisione della norma nell'individuazione dei presupposti della misura: carenza non riscontrabile – afferma la Consulta – neanche in rapporto alla descrizione delle condotte alla cui reiterazione quest'ultima è annessa".

La Corte ha dichiarato, altresì, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del decreto Minniti, sollevata dal Tribunale di Firenze in riferimento all'art. 3 Cost. con riguardo all'individuazione delle condotte illecite, sul rilievo che sarebbe irragionevole colpire con il Daspo urbano chi, violando divieti di stazionamento e occupazioni di spazi, impedisca l'accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei trasporti – condotta normalmente priva di rilievo penale – e non invece chi, nelle stesse aree, tenga condotte penalmente rilevanti e ben più pericolose per la sicurezza (minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche, ecc.).

"Secondo la Corte, si è di fronte a una scelta espressiva dell'ampia discrezionalità spettante al legislatore in materia e non manifestamente irragionevole. La selezione delle condotte cui può conseguire la misura – sottolinea la nota della Consulta – riflette l'intento legislativo di individuare quelle tipologie di comportamenti che, sulla base dell'esperienza, contribuiscono maggiormente a creare un clima di insicurezza nelle aree considerate e che implicano una prolungata e indebita occupazione di spazi nevralgici per la mobilità o comunque interessati da rilevanti flussi di persone".

"Il legislatore – osserva la Consulta – non ha mancato, peraltro, di prendere in considerazione condotte di diverso ordine e di rilievo penale (comprese quelle richiamate dal giudice a quo) ai fini dell'applicazione di altre figure di Daspo urbano, quali quelle previste dagli artt. 13 e 13-bis del decreto Minniti".

La Corte ha dichiarato invece inammissibili, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, le questioni aventi ad oggetto l’ordine di allontanamento per 48 ore dal luogo di commissione del fatto, che ai sensi degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del decreto Minniti deve essere impartito al trasgressore dall’organo accertatore delle violazioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9.

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