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Reddito di cittadinanza, le ultime notizie

Contro povertà e speculazioni, difendiamo il reddito di cittadinanza dalla riforma di Giorgia Meloni

Manifesto in difesa del reddito di cittadinanza dallo smantellamento del governo Meloni: è il momento di superare i dubbi del passato e preservare una vera misura di contrasto alla povertà.
A cura di Redazione
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  • di Andrea Orlando, parlamentare del Partito Democratico ed ex ministro del Lavoro

Secondo un recente rapporto dell'Istat nel 2022 poco meno di un quarto della popolazione (24,4%) è a rischio di povertà o esclusione sociale, più o meno come nel 2021 (25,2%). Nonostante la ripresa dell’economia, rimane stabile la popolazione a rischio di povertà (20,1%) e questo nonostante il fatto che nel 2021 il reddito medio delle famiglie (33.798 euro) sia tornato a crescere sia in termini nominali (+3%) sia in termini reali (+1%). Nel 2021 il reddito totale delle famiglie più abbienti è 5,6 volte quello delle famiglie più povere (rapporto sostanzialmente stabile rispetto al 2020). Tale valore sarebbe stato più alto (6,4) in assenza di interventi di sostegno alle famiglie. La crescita, dunque non riduce le diseguaglianze e soprattutto non attenua il rischio di diventare poveri. La congiuntura attesa è tutt’altro che favorevole, tanto più alla luce del calo della produzione industriale e dell’ulteriore aumento dei tassi di interesse annunciato dalla Bce.

Questo insieme di elementi non sembra però preoccupare minimamente il Governo che in queste ore è impegnato a smantellare l’unico strumento di contrasto alla povertà esistente: il reddito di cittadinanza. La simulazione effettuata dall'Ufficio Parlamentare di Bilancio in merito alle nuove misure del Dl Lavoro ci dice che dei quasi 1,2 milioni di nuclei familiari beneficiari di reddito di cittadinanza, circa 400.000 (il 33,6%) saranno esclusi dall'assegno di inclusione (lo strumento che sostituirà il rdc) perché al loro interno non sono presenti soggetti da tutelare secondo le nuove norme. Dei restanti circa 790.000 nuclei in cui sono presenti soggetti tutelati, circa 97.000 (poco più del 12%) risulterebbero comunque esclusi dalla fruizione dell'Adi per effetto dei vincoli di natura economica.

Nel complesso, dunque, i nuclei beneficiari dell'Adi risulterebbero circa 740.000, di cui 690.000 già beneficiari di Rdc e 50.000 nuovi beneficiari per via della modifica del vincolo di residenza. Circa la metà insomma rispetto al reddito. E come abbiamo visto la povertà sembra destinata a crescere. In sostanza si chiude l’ombrello mentre la pioggia si fa più intensa.

Quando la destra è arrivata al governo una buona parte del lavoro sporco era già stato fatto. Un’ampia parte dell'opinione pubblica leggendo i giornali, tanto quelli progressisti, quanto quelli conservatori e ascoltando esponenti di gran parte delle forze politiche in TV, si era fatta l'idea di trovarsi di fronte ad uno dei provvedimenti più esecrabili della storia repubblicana. Una misura, secondo l’ampio ed eterogeneo fronte dei detrattori, assistenziale e clientelare soggetta ad abusi, nemica del lavoro, utilizzata da lavativi con una indubbia inclinazione criminale. Il fantasma di Lombroso sembrava incombere.

Certo, a favorire questa campagna avevano contribuito e non poco i padri e le madri dello stesso provvedimento. L’esigenza di combinare approcci molto diversi presenti nella maggioranza giallo-verde aveva trasformato, negli annunci, un necessario strumento di contrasto alla povertà in una sorta di miracolosa panacea, non solo in grado di abolire la povertà stessa, ricordiamo il balcone, ma persino capace di fare scomparire la disoccupazione. La stessa definizione di reddito di cittadinanza ha nuociuto non poco alla sua reputazione. Frutto della propaganda del tempo che ha finito per travolgere l’evidenza: con 600 euro al mese non si realizza nessuna cittadinanza, al più si evita di andare sotto i ponti. Una definizione che ha richiamato in modo fuorviante istituti legati all’obbiettivo di un reddito universale.

Sugli stessi pregiudizi di cui si è poi nutrita la polemica contro il sussidio si era fondata una parte delle norme che regolano le procedure, i controlli, le condizioni, le modalità di spesa. Furono gli autori della legge stessa, infatti, a parlare di norme anti-divano. Le preoccupazioni dei critici sono spesso suonate peraltro nobili, tutelare le risorse pubbliche ed evitare che la misura costituisse un disincentivo alla ricerca del lavoro.

È lecito nutrire qualche dubbio però sulla genuinità di quelle riserve se si guarda ad alcuni fatti. Lo stesso sdegno non si è per esempio sollevato per l’ormai storico flusso di risorse pubbliche destinate a sostenere attività ambientalmente dannose. Nello stesso periodo nel quale i giornali pubblicavano paginate sulle truffe legate all’erogazione del reddito di cittadinanza (in queste vicende non sembra valere mai la presunzione di non colpevolezza) nell’ambito dei bonus edilizi "l'attività di analisi e controllo ha consentito all'Agenzia delle entrate e alla Guardia di Finanza di individuare un ammontare complessivo di crediti di imposta irregolari pari a 9 miliardi, di cui circa 3,6 miliardi oggetto di sequestro da parte dell'Autorità giudiziaria".

I controlli dello Stato

In una recente audizione al Senato (18 maggio scorso) il presidente dell'Inps ha poi sottolineato in merito al Rdc che sulla base dei controlli avviati dall'Istituto ex ante sono state respinte nel 2019 492 mila domande, 342 mila domande nel 2020, 443mila domande nel 2021, 524mila domande nel 2022 e nel 2023 143mila domande nei primi 4 mesi, per un totale di 1,9 milioni di domande. "Questo è avvenuto durante il periodo nel quale molti hanno detto o pensato che l'Istituto non faceva i controlli", ha spiegato Tridico. Il 50% delle persone sono state bloccate ex ante. Ex post, invece, sono state revocate in quattro anni 300mila domande e sono state poste in decadenza 1 milione di domande. In totale, quindi, "3,2 milioni di domande non pagate che hanno comportato un esborso non pagato pari a 11 miliardi di euro".

Sì, perché il reddito si può perdere anche per irregolarità formali per la verità tollerate o sanabili in molte altre tipologie di sussidi Una tempestività ed un’incisività che ha generato un paradosso. Il racconto di questa efficace e non comune opera di repressione anziché come conseguenza della natura stringente delle norme è stato reso come la conseguenza di una patologia, della natura distorta del sussidio e ancora una volta, tra le righe, dell’immoralità dei percettori. È lecito pensare che questo racconto sia stato legato più che alla gravità del fenomeno al fatto che mediamente tra i lettori e gli editori dei giornali siano stati di più quelli che avevano utilizzato il bonus edilizio di quelli che avevano usufruito del reddito di cittadinanza.

Una folta compagine di esperti, spesso di orientamento culturale diverso, ha poi denunciato nel corso dei mesi scorsi il fatto che il sussidio non fosse in grado di inserire percorsi di inclusione lavorativa. Una critica per la verità, a mio avviso, abbastanza sorprendente, tanto più perché spesso mossa da persone edotte sulle dinamiche del mercato del lavoro nel nostro paese. Infatti, senza un pizzico di malafede, è difficile sorprendersi del fatto, che in assenza di investimenti e strutture adeguate e sul fronte delle politiche attive un semplice sussidio da solo non produca effetti significativi sotto il profilo occupazionale. La campagna non si è neppure affievolita quando l’Istat presieduta dal professor Blangiardo, ha certificato che il reddito avrebbe salvato circa un milione di persone dalla povertà assoluta, anzi paradossalmente, o forse no, il cannoneggiamento si è addirittura intensificato.

La povertà non è una colpa

Io non credo però che né i limiti comunicativi né la mancanza di sistematicità siano state le vere ragioni di questa reazione. Per una parte consistente ed influente delle classi dirigenti italiane la nascita è un merito, è il vero merito, la ricchezza ne è la diretta conseguenza. Per questo la povertà è una colpa alla quale fare al più fronte, in modo pietistico, con un po' di filantropia.

L'idea che essa sia conseguenza del sottosviluppo di molte aree del Paese, dei limiti di un modello di sviluppo distorto, dell’arretramento dello stato sociale e della crisi dell’istruzione non li sfiora, così come non si avvedono che la povertà non fronteggiata a sua volta costituisce una tara per la società e l'economia. Non li preoccupa neppure il rischio di una caduta della domanda interna, né da un punto di vista utilitaristico che i costi indotti dall'assenza di strumenti per fronteggiare il fenomeno impattino comunque sul bilancio dello Stato, in termini di sostegno all'affitto, sanità, contrasto alla devianza minorile e così via. C'è un cieco furore ideologico che rimuove le cause oggettive della povertà, una pulsione caratterizzata dall’avversione a qualunque politica minimamente redistributiva.

Non è colpa del reddito di cittadinanza se "l'imprenditore non trova lavoratori"

C'è poi una seconda ragione per la quale interessi concreti hanno mosso guerra al reddito di cittadinanza. Il reddito di cittadinanza ha esercitato una pressione oggettiva sui salari più bassi, sul mondo del nero e del grigio, dell'elusione contributiva, un mondo che include una parte consistente dei servizi, del turismo, dell’agricoltura e dell’edilizia minori. Per quel mondo il reddito di cittadinanza ha costituito un problema, sentirsi dire “no io per cinquecento Euro non vengo” è stato un trauma, un campanello d'allarme, una crepa in un mercato del lavoro parallelo che si finge di non vedere.  A questa campagna non sono mancate né risorse, né ingegni. E via una processione di commentatori, opinionisti professionali o casuali. La figura più gettonata: il piccolo imprenditore che sconsolato dichiara di non trovare personale a causa del reddito. Nessuno che chieda allo stesso: ma quanto li pagate i vostri dipendenti ? quante ore gli fate fare? Che contratto nazionale viene applicato?

Questo in un paese nel quale, in alcuni settori, proprio quelli interessati dalla presunta carenza di manodopera, alle verifiche periodiche disposte dall’Inl le imprese risultano non in regola nell’80% dei casi, soprattutto per ragioni legate all’evasione contributiva. E al corteo degli indignati non poteva mancare il contributo, come si è detto, degli esperti. Anche di estrazione politica e culturale diversa.

In prima fila i liberisti per i quali essendo impossibile che il mercato sia inefficiente ritengono che la mancanza di lavoro sia conseguenza della poca voglia di lavorare o delle scarse competenze dei lavoratori. Non sono mancati però anche esponenti di estrazione, diciamo così, pseudo laburista che sono caduti nella contrapposizione tra lavoro e sussidi. Alcuni di questi, va detto, in buona fede e un po' spaventati dall’evocazione della jobless society.

Con un approccio astratto si è contrapposto, infatti, il trasferimento finanziario costituito dal reddito di cittadinanza alla possibilità di attivare forme di lavoro garantito, strumento quest’ultimo assolutamente preferibile per gli occupabili ma che presuppone un’organizzazione della pubblica amministrazione ed un confronto con le organizzazioni sindacali non semplicissimo. Peraltro anche la prima versione della legge conteneva la possibilità di attivare processi in tal senso che andavano semmai sostenuti e semplificati come si è in seguito provato a fare. A differenza anche dei conservatori di altri paesi europei, quelli di casa nostra non si pongono il problema della coesione sociale e ritengono che l’unica misura necessaria a sostenere i redditi siano gli sgravi fiscali per le imprese. Come se per queste ultime, gravate spesso da limiti dimensionali, schiacciate da costi crescenti ed incerti (prima quelli dell’energia poi quello del costo del denaro) l’unico ostacolo alle assunzioni fosse il costo del lavoro.

La narrativa del divano

La narrativa del divano confligge apertamente però con le difficoltà strutturali del nostro mercato del lavoro a fare incrociare domanda e offerta. Scaricare sui percettori occupabili la responsabilità della disoccupazione “perchè non si danno abbastanza da fare” fa torto all’intelligenza oltre che alle condizioni materiali nelle quali dovrebbero mettersi alla ricerca del lavoro, in regioni con disoccupazione a doppia cifra che dovrebbero lasciare per impieghi discontinui a basso reddito in altre aree caratterizzate da affitti proibitivi, requisiti di occupabilità bassa a fronte dell’ássenza di strumenti per implementare le competenze. Sul disoccupato si fanno gravare le responsabilità di un sistema della formazione e talvolta dell’istruzione inadeguato.

E oggi lo smantellamento del reddito avviene mentre si dovrebbero attivare le risorse previste dal Pnrr che per la prima volta costituiscono un investimento importante in quest’ambito, in grado di superare questo limite. Questa impostazione da inoltre per scontato che l’accesso al lavoro coincida con l’uscita dalla condizione di povertà. Una cosa tutt’altro che vera in Italia, dove più del 15% dei lavoratori si colloca al di sotto della soglia di povertà e dove il 20% dei percettori del reddito di cittadinanza, prima delle ultime modifiche volute dal governo Meloni, era costituito da lavoratori con un regolare contratto  nonostante il quale continuavano ad integrare i requisiti per percepire il sussidio.

Un ripugnante eccesso di zelo ha spinto poi alcuni esponenti del terzo polo a contrapporre i percettori del reddito ai lavoratori dipendenti bruciando sul tempo la destra nazionalista in uno degli esercizi che più la caratterizza: contrapporre gli ultimi ai penultimi. Ricordo una polemica che ha riguardato il personale della sanità. I tagli in questo settore secondo questa disgustosa demagogia sarebbero dovuti alle risorse dirottate verso i percettori del reddito e non invece, come è evidente, erose dall’evasione e deviate spesso verso la sanità privata.

Votare contro il reddito fu un errore

Il Partito democratico votò contro il reddito di cittadinanza e fu un errore, un errore grave, non giustificabile né con i limiti del provvedimento, né con il tratto paternalista di alcune sue norme, né con l’assenza, al tempo, delle politiche attive del lavoro. Un provvedimento si vota per ciò che c’è al suo interno non per ciò che manca nel sistema complessivo, né per come viene presentato.

Pesava sicuramente la propaganda del Movimento 5 Stelle che proprio in quei mesi scatenò una violentissima campagna contro il Pd. Ma pesò anche il posizionamento politico della leadership dell’epoca.  L’argomento che contrapponeva il reddito di cittadinanza al REI non mi è mai parso per la verità particolarmente efficace. Ammesso che le regole del primo fossero migliori di quelle del secondo la differenza l’ha indubbiamente fatta la dimensione dell’investimento.

Oggi si pone comunque la possibilità di superare quell’errore per difendere lo strumento essenziale in sé e per affermare un principio la cui difesa è oggi vitale per il Partito democratico. L’aggressione al reddito di cittadinanza è spesso l’aggressione all’idea stessa della redistribuzione in quanto tale. E il reddito di cittadinanza è stato il più importante episodio di redistribuzione di reddito dopo gli ottanta Euro del governo Renzi.

La lotta alle diseguaglianze è un tema che è finalmente tornato nell’agenda del Pd. Ma senza redistribuzione, rivedendo le priorità di spesa o il carico fiscale questa parola d’ordine resta vuota. Penso che la costruzione del nuovo Pd e il suo radicamento in molte aree del Paese passi anche per questa battaglia. La rottura tra sinistra e larga parte dei settori popolari della società non è stato un accidente storico. Sicuramente ha inciso la capacità della destra di contrapporre le povertà, gli ultimi ai penultimi ed una certa disattenzione culturale che è diventata talvolta sufficienza.

Perché difendere il reddito di cittadinanza

Ma c’è anche un dato materiale alla base. Nella difesa anche nobile delle compatibilità, nella riduzione del danno rispetto a welfare ed istruzione al tempo delle politiche di rigore, allo sforzo che molti amministratori locali hanno fatto per implementare in tempi difficili la rete dei servizi sociali, la sinistra ha raramente definito e rivendicato obbiettivi generali  di avanzamento per i poveri. È mancata una bandiera, una conquista concreta da raccontare.

I poveri non votano la sinistra anche perché è molto tempo che la sinistra non fa qualche cosa di concreto per loro. Noi non diciamo mai, anche se sarebbe corretto, la sanità pubblica va difesa ma va cambiata. Eppure ci sono molte cose che andrebbero cambiate in quel contesto, cosi come nella scuola pubblica o nella previdenza. Per cambiare qualcosa è necessario che quella cosa prima di tutto esista.

La stessa formula usata per il reddito di cittadinanza, (“dobbiamo difenderlo ma va cambiato”) è la spia di un imbarazzo che va superato. Al  fatto che altri, anche con parole d’ordine discutibili, se ne siano impossessati si deve reagire riconquistando l’obbiettivo della lotta alla povertà come priorità e non negandone o sminuendone le ragioni. Come abbiamo visto la crescita e la ripresa occupazionale sono la condizione necessaria ma non sufficiente per sconfiggere la povertà. Un sussidio universale contro la povertà è un tassello essenziale di un’azione politica finalizzata alla coesione sociale e all’inclusione. Da solo non basta ma senza la situazione sarà ancora più drammatica. Questa battaglia va, infatti, collegata a quella per la piena attuazione delle politiche attive previste nel Pnrr e contro lo smantellamento di Anpal. La possiamo fare assieme al vasto mondo del terzo settore che ha un ruolo essenziale nei processi di inclusione.

Va legata a quella per il salario minimo e alla previsione di grandi progetti di manutenzione delle città e del territorio realizzati anche utilizzando forme di lavoro garantito. Il lavoro è una forma di riscatto a condizione che sia dignitoso e che chi lo cerca sia messo nelle condizioni di non essere piegato ad una condizione di minorità. L’identità di una forza politica che si batte contro le diseguaglianze, in concreto, passa da una battaglia come questa. È particolarmente difficile perché i poveri non sono organizzati, non hanno voce, non organizzano convegni, spesso la loro condizione li ha privati della stessa consapevolezza dei loro diritti, sono stati, spesso, portati a vergognarsi della loro condizioni. Per questo non vedremo grandi manifestazioni contro le scelte del governo.

Trovare le forme adeguate per opporsi ad esse parlando a quel mondo nascosto e diffidente sarà  però essenziale per il Pd e per la sinistra.

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