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Opinioni

Come la guerra in Ucraina ha trasformato la parola “pacifista” in un insulto

Non è la coscienza antimilitarista ad averci portato alle soglie del terzo conflitto mondiale, non è il rifiuto della guerra ad aver nutrito lo spettro dell’apocalisse nucleare. E allora perché dirsi pacifista ora equivale a essere tacciato di collaborazionismo col delirio putiniano? Perché “pacifista” è diventato un insulto?
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Lo storico Eric Hobsbawm, in quello che è uno dei capolavori della storiografia moderna, Il secolo breve, spiega che quando le persone si trovano di fronte a qualcosa di nuovo, di non conosciuto né previsto, la reazione più istintiva è quella di cercare una definizione, un modo semplice e immediato per capire le cose. Hobsbawm parla apertamente di “un affanno a cercare le parole per dare un nome all'ignoto”, una ricerca che continua anche quando esso non può essere precisamente definito o compreso. È ciò che è accaduto a molti di noi nei giorni immediatamente successivi alla decisione di Putin di dare il via all’invasione su larga scala dell’Ucraina: di colpo si è materializzato di fronte ai nostri occhi il fantasma della guerra, lo spauracchio di una escalation in grado di cambiare per sempre le nostre esistenze. Con una velocità impressionante, si sono imposte nel nostro immaginario le immagini dei tank russi, dei bombardamenti, dell’indicibile sofferenza che la guerra sta provocando ai militari di entrambi gli schieramenti e al popolo ucraino.

Abbiamo cercato un modo per definire cosa stesse accadendo, increduli di fronte al fatto che la guerra stesse bussando alle porte dell’Occidente e spaventati da ciò che potesse accadere il giorno, la settimana o il mese successivo. Lo facciamo continuamente, dare un nome all'inconsueto e all'orrore è un modo per cercare di capire e disinnescare. Meravigliarsi che da questo contesto siano uscite letture superficiali, approssimative o manichee sarebbe un errore colossale. Tanto più perché ci sono dei fatti indiscutibili e delle responsabilità piuttosto evidente in quella che è e resta una guerra di aggressione, che va fermata il prima possibile.

Chiamare le cose con il loro nome è servito, mai come in questo caso. La consapevolezza di quanto fosse intollerabile l'aggressione militare di Putin ha determinato la durissima reazione dell'opinione pubblica occidentale e ha spinto ulteriormente i governi a intervenire in modo rapido, senza girarsi dall'altra parte e fingere di non vedere. In pochi giorni i governi occidentali hanno preso decisioni radicali, durissime, che in altri tempi avrebbero richiesto settimane, se non mesi. Rapidità e istintività si sposano assai poco con lucidità, però. Soprattutto, difficilmente risultano efficaci per risolvere situazioni complesse, che peraltro coinvolgono attori inaffidabili e volubili, in contesti contaminati da propaganda e contro-propaganda. Le immagini delle città ucraine colpite dai bombardamenti, delle centinaia di migliaia di profughi, di migliaia di vite distrutte per sempre hanno travolto ogni dubbio, cancellato le sfumature e annebbiato le coscienze. Era inevitabile, forse anche giusto. Ma chi ha l’onere del governo, chi ha in mano le redini di un Paese, ha il dovere di conservare la lucidità, di ponderare le conseguenze delle proprie azioni. Armare gli ucraini perché resistano all'invasione, punire duramente l'economia russa, mobilitare la NATO perché sia pronta alla bisogna, colpire gli oligarchi in ogni parte del globo sono azioni probabilmente ritenute necessarie per tracciare un solco, per rispondere a un'aggressione violenta. Ma sono e restano iniziative di corto respiro, non hanno nulla a che vedere con una vera strategia di azione per la risoluzione del conflitto, men che meno per prevenire un'escalation.

In un conteso normale, saremmo stati in tanti a dire che le esibizioni muscolari, l'innalzamento della tensione, le scelte avventate e le azioni eclatanti forse sollevano l’umore dell’opinione pubblica per qualche ora, forse portano qualche punto in più negli indici di gradimento, ma rischiano di provocare altro terrore, altra disperazione, altra morte. Al punto in cui siamo, con i tank russi che avanzano spargendo terrore e distruzione, con milioni di profughi provocati da una folle guerra scatenata unilateralmente, con le bombe che ammazzano donne e bambini, con milioni di persone che di colpo si sono trovate in scenari apocalittici, sembra non esserci spazio per considerazioni di altro tipo, per qualunque tentativo di un ragionamento che si basi su altre premesse o che addirittura giunga a conclusioni diverse. Del resto, come possiamo pretendere che gli ucraini stiano appresso ai nostri distinguo, alla nostra prudenza, ai nostri rischi calcolati? Cosa faremmo se qualcuno stesse attaccando il nostro Paese, costringendo anziani e bambini alla fuga e trasformando noi in soldati? Cosa risponderemmo a chi dovesse dirci "arrendetevi, è l'unico modo per non far morire più nessuno", magari da una posizione comoda, senza essere mai andato neanche lontanamente vicino a provare il terrore di perdere tutto, di rischiare la vita?

Il pacifismo ha ancora senso?

È un dilemma che ci tormenta, anche perché il rischio più tangibile è quello di essere fraintesi, o meglio, costretti dentro un binarismo interpretativo che non ammette sfumature. È così che "pacifista" è utilizzato alla stregua di un insulto, come sinonimo di collaborazionista al progetto putiniano. Mentre social network e programmi televisivi sono inondati di retorica militarista, con l'arditismo elevato a valore universale e cripto-fascismi tollerati in nome di un bene superiore, i governi di tutto il mondo si lanciano in una folle corsa al riarmo. La notizia dell'aumento della spesa militare, che fino a qualche settimana fa avrebbe provocato reazioni scomposte o almeno vibranti proteste, viene accolta dai cittadini di ogni nazione con un sospiro di sollievo. Ci armiamo, ci difendiamo, siamo al sicuro. Bramiamo una securizzazione della nostra esperienza del mondo, fino a diventare incapaci a riconoscere da dove venga il pericolo. La guerra si è presa tutto, anche i nostri riferimenti valoriali e culturali. E persino tra gli insospettabili si fanno strada le ipotesi più raggelanti di ulteriori inasprimenti delle ostilità belliche.

In un'incredibile inversione di causa ed effetto, a sentirci in colpa siamo noi che abbiamo sempre combattuto l'acquisto degli F35 o dei blindati di ultima generazione, che abbiamo rallentato l'ammodernamento dei nostri apparati militari, che abbiamo sempre spinto per la dismissione degli armamenti nucleari. Non dovrebbe essere così, non può essere così. Non dovremmo rinunciare alla complessità con tale leggerezza, non dovremmo smettere di pensare non solo che se il messaggio pacifista avesse permeato in profondità l'opinione pubblica non saremmo mai giunti a questo punto, ma nemmeno che la strada pacifista non sia più percorribile al punto in cui siamo. Non è la coscienza antimilitarista ad averci portato alle soglie del terzo conflitto mondiale, non è il rifiuto della guerra ad aver nutrito il mostro nucleare. Dovremmo anzi ora più che mai prendere atto delle conseguenze della retorica militarista, per essere capaci di sentire e capire davvero il peso della distruzione e della morte che genera un conflitto armato.

Si è diffusa la falsa convinzione che pacifismo sia sinonimo di passività, di predisposizione a lasciarsi sopraffare. Si sovrappongono concetti diversi, come pacifismo e nonviolenza, si restituisce un'idea banale e superficiale, si fabbrica un dualismo fra il realismo dei grandi e dei maturi e l'utopia di qualche gruppetto di ingenui incapaci di fare i conti con la realtà. Si sottovaluta la radicalità del messaggio pacifista, che può permeare le coscienze e contribuire a plasmare la realtà, come avvenuto in Europa negli ultimi decenni, sia pure tra mille contraddizioni. Quella pacifista è, deve essere, una lotta. Il sostegno attivo ai pacifisti in Russia è la forma più utile in questo momento. Il boicottaggio con ogni mezzo della guerra di Putin ne è un corollario. La polverizzazione degli interessi dei suoi sodali ovunque essi siano è pratica necessaria. Per rovesciare un regime, per costringere i decisori al compromesso, per imporre una logica altra, per cambiare un destino inevitabile occorre presentare la pace come l'unica scelta di lungo periodo.

Lo scriveva Alexander Langer già nel 1989: "I pacifisti – al pari degli ecologisti ­- dovranno quindi trovare un modo non solo predicatorio e moralistico per raffor­zare le ragioni del lungo periodo contro quelle del breve periodo. La paura non basta: né la paura della guerra, né quella della catastrofe ecologica. E comunque sarebbe cattiva consigliera. E anche l'uto­pia, intesa come quel "completamente altro" che si sa che non è di questo mondo, non basta: rischia di essere buona solo per le occasioni solenni, per le invocazioni liriche".

Lo dobbiamo alle piazze di Mosca e San Pietroburgo, al coraggio che ha portato migliaia di cittadini russi a protestare contro una guerra ingiusta, a sfidare gli sguardi severi dei propri compatrioti drogati dalla propaganda sull'operazione speciale "per denazificare l'Ucraina". Lo dobbiamo alle centinaia di migliaia di manifestanti in ogni parte del mondo, che certamente non stanno chiedendo ai grandi del pianeta di trasformare l'Ucraina nel primo episodio di un videogame di guerra destinato a espandersi su scala globale. Ma soprattutto lo dobbiamo al popolo ucraino, che sta pagando col sangue il prezzo dell'ennesima guerra ingiusta. Alla povera gente dell'Ucraina e della Russia, sempre vittima preferita delle guerre, si sarebbe detto un tempo.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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