
di Annalisa Girardi e Giulia Casula
Abbiamo chiesto a dieci persone cosa cambierebbe per loro se si accorciassero i tempi per poter richiedere la cittadinanza italiana. In altre parole, cosa cambierebbe se vincesse il SÍ al referendum dell'8 e 9 giugno. Tra i nostri intervistati, cinque hanno la cittadinanza italiana dalla nascita e per loro non cambierebbe assolutamente nulla. I loro diritti non verrebbero intaccati in alcun modo, il contesto culturale e sociale in cui vivono non subirebbe alcuno stravolgimento. Per le altre cinque persone che abbiamo intervistato – persone che sono nate in Italia da genitori con cittadinanza straniera, oppure persone che sono arrivate in Italia tantissimi anni fa – cambierebbe invece moltissimo.
Perché vorrebbe dire cinque anni in meno di file in questura, file che obbligano a perdere giorni di scuola e di lavoro. Vorrebbe dire accorciare un processo burocratico complicatissimo, che pesa nella quotidianità delle famiglie. E anche nella psicologia di chi pur vivendo in un Paese è costretto a sentirsi ospite.
Ci sono bambini e ragazzi che sono nati in Italia, è l'unico Paese che conoscono. Eppure sono obbligati a sentirsi diversi, perché non possono andare in gita con i loro compagni di scuola, perché per fare l'Erasmus come tutti gli altri devono fare i salti mortali. Ci sono uomini e donne che hanno trascorso oltre metà della loro vita in Italia, ma non possono ancora votare, non possono partecipare alla vita politica come gli altri. Come i cittadini effettivi, almeno sulla carta.
Ci sono persone che per oltre una decade – e non sono mai dieci anni, i processi richiedono in realtà molto più tempo – devono sottoporsi a delle vere e proprie peripezie burocratiche, fatte di documenti su documenti e attese infinite. Tanto che c'è anche chi ci scoraggia, chi rinuncia e si arrende all'idea di restare per sempre un cittadino "ospite" del Paese in cui vive.
Cinque anni di residenza continuativa non sono un pass verso una cittadinanza facile. Accorciare i tempi è semplicemente ragionevole. Dire il contrario, agitare lo spauracchio di mille cambiamenti, è propaganda: perché tutti gli altri criteri – dalla conoscenza della lingua al sostentamento economico – rimangono. Ridurre i tempi – per quanto comunque cinque anni (e oltre) siano tanti – è il segnale di un Paese civile, un Paese moderno che sa accogliere chi lo abita. Che sa riconoscere cosa vuol dire, per davvero, cittadinanza.