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News su migranti e sbarchi in Italia

Chiudere i migranti nei Cpr non ci proteggerà dai terroristi e dagli attacchi dei lupi solitari

L’attentato di Bruxelles per il governo Meloni è stata la molla per rilanciare l’approccio securitario sull’immigrazione, e per puntare il dito contro i flussi irregolari. Ma i dati sui Cpr e sui processi di radicalizzazione dei terroristi dimostrano l’inefficacia di queste politiche.
A cura di Annalisa Cangemi
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"Il killer di Bruxelles era sbarcato a Lampedusa e successivamente era uscito da un Centro per i rimpatri, gli attuali Cpr. Quanti personaggi come lui sono in circolazione, anche alla luce delle sentenze degli ultimi giorni?", si è affrettata a dire la Lega, commentando le notizie sull'attentatore di Bruxelles, Abdesalem Lassoued, il 45enne di origini tunisine, che nella serata di lunedì scorso ha fatto fuoco con un kalashnikov contro due tifosi svedesi, uccidendoli.

La segretaria di Stato all'immigrazione del Belgio, Nicole de Moor, ha ricordato che il terrorista "aveva chiesto asilo in quattro diversi paesi europei e ogni volta la sua richiesta è stata respinta perché non aveva i requisiti per ricevere protezione. E queste sono cose che possiamo risolvere con il nuovo Patto migratorio europeo. Quindi è più urgente che mai portare a termine questo obiettivo".

Come sappiamo, il 45enne tunisino, ha detto di essere affiliato all'Isis, e lo Stato islamico ha rivendicato l'attentato: "Un combattente dello Stato islamico ha attaccato due cittadini svedesi", si legge in un comunicato pubblicato da Amaq, il network del gruppo terroristico. La Svezia è finita nel mirino "perché nella Coalizione" contro l'Isis. Non ci sarebbe quindi alcuna connessione con quanto sta avvenendo in Medio Oriente, con la guerra tra Hamas e Israele. Da quanto è emerso, l'uomo non ha agito per dare attuazione a un piano di morte ordinato dall’organizzazione jihadista, non si è trattato di un attacco terroristico coordinato dall'Isis, ma la sua sarebbe stata una azione solitaria di un uomo in cerca di gloria e di rivalsa.

Non è assolutamente dimostrabile quello che membri del governo, e in particolare di Fdi, continuano a ripetere in questi giorni, e cioè che quando Abdesalem Lassoued sbarcò in Italia nel 2011 rappresentava già una minaccia per la sicurezza e aveva già in mente di colpire a uccidere. Non ci sono prove a sostegno di questa tesi. E tra l'altro il terrorista non poteva già essersi affiliato all'Isis nel 2011, dal momento che lo Stato Islamico, l'organizzazione terroristica paramilitare internazionale, fondata da Abu Musab al-Zarqawi e da Abu Bakr al-Baghdadi, è nata nel 2013.

Eppure la premier Meloni ha ribadito che "dall'immigrazione illegale di massa possono sorgere anche gravi rischi per la sicurezza in Europa, quindi non possiamo più permetterci titubanze, ne va della sicurezza dei cittadini europei". Un modo esplicito per soffiare sul fuoco, invece di trovare il modo di aumentare e semplificare le vie d'accesso regolari nel nostro Paese.

Ripercorrendo la vita dell'attentatore tunisino, sono stati ricostruiti i suoi spostamenti: dopo una permanenza in Italia si è spostato in Svezia, da dove sembra sia stato espulso. Tornato in Italia, nel 2016 è stato identificato a Bologna dalla Digos come radicalizzato: aveva espresso la volontà di aderire alla jihad e partire per combattere. L'uomo è stato quindi monitorato dall'intelligence, e successivamente è andato in Belgio.

Non possiamo conoscere naturalmente le reali intenzioni e i progetti di Abdesalem Lassoued al suo arrivo a Lampedusa, ma possiamo ipotizzare che la mancata integrazione e la marginalizzazione sociale abbiano fatto, in questo caso come in tanti altri, da detonatore, e abbiano favorito la crescita di un disagio, esploso poi nel desiderio di vendetta.

Del resto i processi di radicalizzazione molto spesso avvengono proprio in Europa, nei quartieri-ghetto, nelle periferie, non iniziano nei Paesi di origine. Anzi spesso i terroristi sono persone di seconde e terze generazioni, nate in Europa, che si radicalizzano nel corso della vita. Lo dicono anche i dati, pubblicati dal Domani, che sono stati raccolti da una ricerca di Startinsight: il centro ha analizzato le aggressioni terroristiche compiute dal 2014 al 2020, e solo il 16% di questi atti sono stati compiuti da migranti irregolari (22 su 138). La maggior parte è da attribuire invece a immigrati regolari, di seconda e terza generazione, e a cittadini europei che si sono convertiti all'Islam.

Un rapporto dell'associazione Antigone di qualche anno fa ha messo in luce il fenomeno della radicalizzazione nelle carceri europee. Si legge in un dossier del 2019:

È infatti noto come alcuni dei protagonisti degli attentati che in questi ultimi anni hanno insanguinato l’Europa sono soggetti transitati dal carcere, spesso come criminali comuni, e che, alle volte, proprio nell’ambito della carcerazione hanno maturato un processo di ideologizzazione che ha favorito l’escalation criminale nel campo del terrorismo di matrice religiosa.

A suffragio di quanto stiamo dicendo vengono in soccorso anche i dati Ispi sugli attentati jihadisti commessi in Europa e Nord America dal 2014 al 2019: quasi un terzo degli attentatori ha trascorso un periodo in carcere, e la maggior parte non aveva commesso in precedenza reati legati al terrorismo.

La vicenda di Bruxelles però, lungi dall'essere una molla per accelerare sulla finalizzazione di un accordo europeo sull'immigrazione, per il ministro dell'Interno Piantedosi è la prova dell'esigenza di potenziare le strutture di trattenimento per migranti, di insistere insomma con la politica securitaria e con i controlli delle frontiere. Per cui l'obiettivo del governo è quello di creare almeno un centro in ogni Regione, dopo aver allungato i tempi di trattenimento nei Cpr a 18 mesi per chi entra illegalmente in Italia (per i richiedenti asilo il limite massimo è 12 mesi).

Trattenere i migranti nei Cpr più a lungo non velocizza i rimpatri

Ma di per sé allungare i tempi di detenzione nelle strutture non serve né a fermare i flussi migratori, né a rendere più efficaci i rimpatri, come sostiene l'esecutivo. I dati, presentati anche nell'ultimo rapporto di ActionAid, dicono semmai l'esatto contrario: nel corso degli anni all'aumentare del tempo di trattenimento non corrisponde un innalzamento delle percentuali di rimpatrio. Nel 1998 la durata massima di detenzione nei Cpr era 30 giorni, nel 2023 siamo arrivati appunto a 18 mesi. Parallelamente non si osserva un tasso crescente di rimpatri: dal 60% del 2014 si è passati al 49% del 2021. Per essere più precisi, il rapporto di ActionAid segnala che nel periodo 2014-2021 è aumentato il tempo trascorso in detenzione, con una percentuale di persone trattenute fino a decorrenza termini massimi che nel 2021 raggiunge il 13,9% degli ingressi. Ma l'incidenza dei rimpatri eseguiti sul numero di ingressi nei centri di detenzione fa registrare un deciso calo, con una media del 48,3% nel secondo quadriennio considerato, a fronte di una media del 55,1% nel primo.

Tutto questo dimostra che non esiste un nesso di causalità tra i rimpatri e la lunghezza del periodo che i migranti trascorrono in detenzione, ma i rimpatri dipendono unicamente dagli accordi con i Paesi di riammissione.

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Giornalista professionista dal 2014, a Fanpage.it mi occupo soprattutto di politica e dintorni. Sicula doc, ho lasciato Palermo per studiare a Roma. Poi la Capitale mi ha fagocitata. Dopo una laurea in Lettere Moderne e in Editoria e giornalismo ho frequentato il master in giornalismo dell'Università Lumsa. I primi articoli li ho scritti per la rivista della casa editrice 'il Palindromo'. Ho fatto stage a Repubblica.it e alla cronaca nazionale del TG3. Ho vinto il primo premio al concorso giornalistico nazionale 'Ilaria Rambaldi' con l'inchiesta 'Viaggio nell'isola dei petrolchimici', un lavoro sugli impianti industriali siciliani situati in zone ad alto rischio sismico, pubblicato da RE Le Inchieste di Repubblica.it. Come videomaker ho lavorato a La7, nel programma televisivo Tagadà.
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