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Cartabellotta: “Cambiamo sistema a tre zone. Non abbatte i contagi e costo economico è troppo alto”

Il sistema dell’Italia a tre zone è stato implementato troppo tardi rispetto all’impennata della curva. Dà troppo peso all’indice Rt e mantiene le Regioni con le stesse chiusure e restrizioni per troppo poco tempo. Così Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe, spiega a Fanpage.it perché la strategia anti-coronavirus adottata dal governo finora (e che tornerà in funzione dalla prossima settimana) ha un impatto troppo limitato, a fronte di costi economici e sociali elevatissimi.
A cura di Annalisa Girardi
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Dalla prossima settimana l'Italia tornerà ad essere divisa in tre zone. Ci saranno restrizioni e chiusure diverse sul territorio nazionale, a seconda dei differenti livelli di rischio legati all'emergenza coronavirus. Ma questo sistema è riuscito a contenere solo in parte la curva dei contagi, a un prezzo in termini economici e sociali elevatissimo. Per questa ragione la fondazione Gimbe ha condannato il sistema a tre aree: Fanpage.it ha fatto il punto della situazione con il presidente Nino Cartabellotta. Che, oltre a spiegarci perché l'impatto di questo meccanismo sia stato così limitato, ha anche commentato il piano vaccini, tra dosi finora disponibili e previsioni per i prossimi mesi.

Perché il sistema dell’Italia in tre zone non è efficace nel contenimento del virus?

Le analisi della Fondazione GIMBE hanno documentato che, a circa 5 settimane dal picco, il sistema delle Regioni “a colori” ha ridotto di circa un terzo casi attualmente positivi, ricoveri con sintomi e terapie intensive. Dati peraltro sovrastimati: gli attualmente positivi per l’imponente riduzione dei tamponi nel mese di dicembre e ricoveri e terapie intensive per gli oltre 20 mila decessi nelle 5 settimane di osservazione. In altre parole, a fronte di risultati modesti in termini di flessione delle curve i costi economici e sociali sono sproporzionati. Le motivazioni del limitato impatto sono sostanzialmente tre: innanzitutto la sua applicazione troppo tardiva rispetto all’impennata della curva; in secondo luogo, l’affidare un peso eccessivo all’indice Rt che presenta troppi limiti; infine, la mancata stabilizzazione della curva dei contagi e delle ospedalizzazioni perché due settimane di persistenza nel colore assegnato sono insufficienti.

Che tipo di strategia andrebbe adottata, allora?

Sicuramente bisogna abbandonare la (non) strategia basata sull’affannoso inseguimento del virus con estenuante alternanza di restrizioni e allentamenti che, di fatto, mantiene i servizi sanitari in costante sovraccarico, danneggia l’economia del nostro Paese, produce danni alla salute delle persone e aumenta inesorabilmente il numero dei morti. La Fondazione GIMBE sta elaborando una proposta per la gestione a medio-lungo termine della pandemia, basata sulle migliori evidenze scientifiche e integrata con le certezze/incertezze del piano vaccinale.

Quando capiremo se ci sono stati problemi a Natale?

Tenendo conto che l’impatto delle misure si riflette sulla curva epidemiologica dopo circa 3 settimane quelle introdotte dal Decreto Natale potranno essere visibili dopo metà gennaio. Ovviamente l’entità di flessione delle curve dipenderà soprattutto dai comportamenti privati degli italiani durante le feste. Al momento tutte le curve in risalita risentono del progressivo “scolorimento” delle Regioni che hanno portato ad un Italia tutta gialla (eccetto Abruzzo e Campania) alla vigilia di Natale.

Siamo in ritardo con il piano vaccini? Le criticità riscontrate, specialmente in alcune Regioni, potevano essere evitate?

Parlare di ritardi all’avvio di una campagna vaccinale di tali proporzioni, avviata durante le feste natalizie e con un vaccino approvato 7 giorni prima, è ingeneroso. Peraltro, le vaccinazioni hanno preso un buon ritmo visto che al 9 gennaio (aggiornamento alle 00.37) procedono spedite. Sono stati somministrate quasi il 55% delle 918.450 dosi consegnate), seppur con notevoli differenze regionali che da sempre in sanità condizionano la qualità dell’assistenza: dal 75% della Campania al 30% di Lombardia e Provincia aut. di Bolzano.

A questi ritmi, quando crede che sarà possibile raggiungere l’immunità di gregge?

Il raggiungimento dell’immunità di gregge, che prevede la vaccinazione di almeno il 70% della popolazione, ovvero circa 42 milioni di persone, è condizionata da 5 variabili. Completamento degli studi clinici, approvazione condizionata delle autorità regolatorie, consegna da parte delle aziende, distribuzione e somministrazione del vaccino. Ma ciascuna di queste variabili dipende da attori diversi per cui possibili “asincronie” sono inevitabili soprattutto in nei primi mesi dell’anno. Quello che spetta a Governo e Regioni è azzerare i tempi morti nella distribuzione del vaccino ai punti di somministrazione e smaltire in tempi rapidi tutti i vaccini consegnati. L’ipotesi di vaccinare il 70% della popolazione entro settembre con vaccini a 2 dosi richiede circa 310.000 somministrazioni/die, con i tutti i vaccini già “in cascina” e senza alcun imprevisto sulla tabella di marcia: es. ritardi di consegna delle dosi, adesione della popolazione, effetti avversi imprevedibili, etc). Serve più tempo per tradurre questa straordinaria conquista della scienza in un concreto risultato di salute pubblica.

Si rincorrono tanti numeri, ma quale è la nostra reale disponibilità di vaccini nei primi sei mesi del 2021?

Con l’approvazione del vaccino Moderna l’Italia potrà contare su 22,8 milioni di dosi certe entro giugno. Ovvero, senza il via libera dell’EMA ad altri vaccini (AstraZeneca in primis) o l’inverosimile anticipo di consegne da parte di Pfizer e Moderna, potremo vaccinare circa il 5% della popolazione entro marzo e meno del 20% entro giugno. Con i nuovi accordi dell’UE arriveranno decine di milioni di dosi in più, ma non prima del terzo/quarto trimestre 2021.

Lei ha definito la proposta di dare priorità alla vaccinazione degli insegnanti, per poter così riaprire subito le scuole, “priva di basi scientifiche”. Ci può spiegare perché?

Innanzitutto perché gli effetti della vaccinazione non sono immediati: con il vaccino Pfizer si ottengono dopo 4 settimane dalla prima dose e dopo 6 con quello di Moderna. In secondo luogo i due vaccini riducono del 95% circa il rischio relativo di COVID-19 sintomatica, ma non conosciamo l’efficacia nel ridurre l’infezione asintomatica da SARS-COV-2 e, di conseguenza, la possibilità di trasmettere l’infezione da parte delle persone vaccinate che non potranno acquisire alcuna “patente di immunità”. Infine la scelta sarebbe eticamente discutibile in un momento in cui le dosi sono ancora limitate: le priorità, in quasi tutti i Paesi, sono personale sanitario e persone anziane e/o fragili.

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