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Camusso a Fanpage: “Meloni non aiuta le donne, senza welfare devono scegliere tra il lavoro e i figli”

In occasione del 1 maggio, Festa dei Lavoratori, Susanna Camusso ragiona sulla condizione del lavoro femminile, soprattutto in seguito alla pandemia. E attacca il governo: “Meloni pensa che nella logica della famiglia tradizionale prima viene il lavoro di cura e poi, se resta tempo, c’è anche il lavoro fuori”, ha detto in un’intervista a Fanpage.it.
A cura di Annalisa Cangemi
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Susanna Camusso, già segretaria della Cgil, eletta al Senato con il Partito Democratico, da poco nominata da Elly Schlein Commissaria del Pd a Caserta, in occasione del 1 maggio, ragiona sulla condizione lavorativa delle donne, alla luce anche della discussione che ha aperto anche il Covid-19 sull'importanza del ‘lavoro di cura'. Cosa significa per le donne l'assenza nel nostro Paese di sistemi di welfare pubblico? A questa domanda prova a dare una risposta la parlamentare.

Senatrice, perché secondo lei il Covid-19 è stato uno spartiacque per le donne e per la loro condizione lavorativa?

Perché la situazione di crisi ha dato visibilità al lavoro di cura delle donne, che è stato improvvisamente visto come essenziale, cosa che prima veniva banalizzata e data per scontata, non era considerato un ‘tema di lavoro’. Questa improvvisa visibilità ha fatto sì che per un periodo se ne discutesse seriamente, anche se adesso l’interesse sembra scemare con l’allontanarsi dell’emergenza pandemica.

C’è stato secondo lei negli ultimi anni da parte delle donne un cambio di percezione? È aumentata rispetto al passato la consapevolezza della loro condizione lavorativa?

Nel discorso pubblico sicuramente l’importanza del riconoscimento del valore delle donne non c’era: il lavoro delle donne è stato per tanto tempo visto come una necessità economica delle famiglie, non era un elemento di realizzazione. Se questa era anche la lettura di sé che avevano molte lavoratrici negli anni Sessanta e Settanta, poi progressivamente, anche perché sono stati superati alcuni stereotipi, è andata maturando nelle donne un’altra convinzione, che è diventata evidente soprattutto nelle giovani donne, che sono molto più istruite e decise a dichiarare i loro obiettivi di lavoro e non semplicemente la ricerca di un reddito. Ma è diventata anche una percezione collettiva, tant’è che molte lavoratrici, quando parlano del loro lavoro, la prima cosa che mettono in evidenza è il loro non riconoscimento. Il loro valore non viene riconosciuto né in termini di carriera, di retribuzioni e o di responsabilità. Per esempio una non più giovanissima ingegnera di un’azienda mi raccontava che le dicono sempre che è molto brava. Ma se i suoi colleghi pari grado possono diventare responsabili di cantiere, a lei viene detto che è una donna, ‘forse non è il caso, meglio che stai in ufficio’. Tante forme attraverso le quali alla fine viene dato lo stesso messaggio.

Di queste discriminazioni le donne hanno oggi più coscienza?

Sì, assolutamente. Poi magari questa consapevolezza non si traduce in reazioni concrete o in capacità di farsi valere, perché spesso sono situazioni che vivono le singole. Però il fatto che ci sia una discussione esplicita tra le lavoratrici su questo è già una differenza rilevante rispetto al passato.

Quello che manca forse è l’elemento della collettività, la capacità di percepirsi come gruppo, come categoria e non come soggetto singolo?

Sì, senza dubbio, ma c’è anche una difficoltà per una donna a pensarsi come un soggetto che può rivendicare.

La presidente del Consiglio Meloni ha messo in contrapposizione le donne con i migranti, rispetto al problema della mancanza di manodopera, dicendo che il governo intende favorire prima di tutto l’occupazione femminile e la natalità. Perché è un approccio profondamente sbagliato?

Non ha senso intanto se si considera quello che dicono quotidianamente tutte le associazioni imprenditoriali. Meloni nel suo discorso di presentazione della fiducia alle Camere aveva promesso alle imprese che avrebbe cercato di rimuovere tutti gli ostacoli, e invece sta facendo il contrario, perché la prima cosa che non vede è che c’è bisogno di manodopera e c’è bisogno di manodopera che sia anche formata rispetto a certe professioni. Non può essere con tutta evidenza un tema di contrapposizione tra migranti e donne, o qualunque altra minoranza, ma è semplicemente un problema di qualificazione del mercato del lavoro. Bisognerebbe smettere di parlare di migranti come di persone che non sanno fare nulla se non provare a venire nel nostro Paese. È un modo molto razzista di occuparsi di persone che vogliono solo costruirsi un avvenire, e che hanno alle spalle capacità, formazione e cultura, mentre noi li consideriamo un magma indistinto che al massimo può essere impiegato come manodopera dequalificata. Questo per esempio è un tema su cui la Germania ha costruito un pezzo della sua ripresa. Noi invece continuiamo a vedere i migranti come un carico e non come una straordinaria ricchezza.

Dietro questo modo di ragionare c’è un pensiero, che è stato dibattuto anche negli Stati Uniti, ovvero il fatto che il lavoro delle donne occidentali, dei Paesi più ricchi, abbia come contraltare il lavoro domestico delle lavoratrici migranti. Questo ragionamento sarebbe vero se fosse scontato che quel lavoro debba essere per forza un lavoro dequalificato e sfruttato. Mentre il problema è rendere il lavoro di cura un lavoro di qualità, non sfruttato, ma valorizzato e riconosciuto. E quindi, di nuovo, c’è un pregiudizio nei confronti delle lavoratrici migranti e del loro inevitabile collocamento in fondo alla scala, a prescindere.

Anche l’ex presidente Inps Tito Boeri, contestando le parole di Meloni su donne e migranti, ha detto che “gli immigrati hanno un ruolo fondamentale nel nostro Paese quello di sgravare le donne da molte responsabilità di cura a livello familiare”.

Sicuramente è così, per una ragione: i sistemi di welfare nel nostro Paese funzionano sempre meno, a partire dagli asili nido e dalle scuole a tempo pieno. O si decide che lavorano solo le donne che non hanno figli oppure ci si scontra con il fatto che manca una struttura di welfare. Il tema non è che la donna bianca che lavora sfrutta la donna nera migrante che finisce a fare il lavoro di cura, perché in realtà tutte le lavoratrici sono accomunate dal problema dell’assenza di servizi pubblici: questo pone qualunque donna, nativa o migrante, davanti al problema che da sola non ce la può fare, e la porta drammaticamente a scegliere qual è la partita più importante. Dentro questo però c’è un altro tema, che è sempre presente nel modo in cui la presidente del Consiglio affronta questi problemi.

Quale?

Meloni pensa che nella logica della famiglia tradizionale prima viene il lavoro di cura e poi, se resta tempo, c’è anche il lavoro fuori. Il sottofondo di quel modo di ragionare è questo.

Secondo lei è veramente possibile investire nel lavoro femminile senza il congedo paritario obbligatorio?

No, il congedo paritario obbligatorio è essenziale sul piano del riconoscimento del fatto che la genitorialità è un valore e un bene sociale, non è un costo per le imprese delle lavoratrici. È essenziale perché i papà imparino che non basta essere genitori, bisogna anche farlo. Questo è un elemento di cambiamento profondo del costume sociale del Paese. Però non è l’unica cosa necessaria. I tempi sono cambiati, e nel frattempo sono cambiate le necessità perché sono mutate pure le composizioni delle famiglie. E questo riguarda tantissimi aspetti, anche per esempio come sono fatte le case nelle zone interne del Paese: noi veniamo da una struttura di grandi famiglie e siamo diventati una società di piccoli nuclei familiari.

Questo cosa comporta?

Significa che i servizi devono essere adeguati a questa dimensione.

E invece ci troviamo in una condizione in cui rischia di slittare nel Pnrr l'obiettivo di giugno degli asili nido, a cui è agganciata la quarta rata. 

Tra le tante ragioni per cui le dichiarazioni della presidente del Consiglio sono insopportabili c'è anche questa: è un ragionamento costruito sul non fare i conti con il fatto che quando siamo particolarmente bravi nel nostro Paese raggiungiamo il 50% dell'occupazione femminile, o siamo poco sopra quella soglia in quelle Regioni, come l'Emilia-Romagna, che hanno una storia di struttura sociale più forte, e che bene o male l'hanno mantenuta. Ma nel Mezzogiorno questo è un drammatico problema, perché le Regioni del Sud l'occupazione femminile è molto al di sotto del 50%. Ma anche nel Nord i bandi pubblici tendono a diminuire, lasciando spazio ai posti privati. Si pone quindi anche un tema di accessibilità economica a quei servizi.

È preoccupata dalle dichiarazione che ha fatto il ministro Fitto durante la sua informativa in Parlamento?

Tutti i ragionamenti che sentiamo fare in questo momento dal ministro per gli Affari europei Fitto sul Pnrr preoccupano, perché tutti i punti che mette in contrapposizione, l'attuabilità del piano, le risorse e i tempi, questa miscellanea con cui giustificano il ripensamento sul Pnrr, hanno a che fare con il nodo fondamentale: con il Pnrr fai i muri, fai gli edifici, ma poi ci devono essere le risorse per farli funzionare. Non a caso a rischio ci sono gli asili nido, che sono tra le cose che non si risolvono con la struttura in sé, perché questa bisogna poi riempirla con un'attività. Quello che il governo ci sta dicendo è che le risorse verranno usate per tagliare le tasse a chi sta già bene e non per costruire una struttura sociale adeguata.

Meloni però sul congedo paritario fa notare che è stata lei ad aggiungere un mese di congedo parentale all'80%, utilizzabile nei primi sei anni del bambino dal padre o dalla madre.

Io l'ho vissuto in diretta questo passaggio. Vorrei ricordare che il testo iniziale del governo recitava "per le donne", ed è stato corretto dagli emendamenti proposti dall'opposizione non perché hanno cambiato idea e si sono pentiti. In realtà nella prima stesura hanno scritto quello che pensano: occuparsi dei bambini è un dovere delle mamme. Punto.

Meloni si è detta anche contraria alla fissazione di un salario minimo legale, perché pensa possa diventare "non un parametro aggiuntivo delle tutele dei lavoratori, ma un parametro sostitutivo", causando un livellamento verso il basso delle retribuzioni. È così?

Basterebbe studiare un po' per capire cosa è successo in quei Paesi che hanno adottato il salario minimo, vedere cosa è successo in Germania o in Francia – che tra l'altro ha il salario minimo più alto d'Europa – oppure in un Paese forse più simile al nostro da questo punto di vista, cioè la Spagna. In tutti questi Paesi il salario minimo non ha rappresentato né una diminuzione dell'occupazione né una riduzione della possibilità di crescita delle retribuzioni. Sono tutti luoghi in cui le retribuzioni crescono più delle nostre.

Non c'è stato insomma alcun livellamento verso il basso.

No, perché anzi c'è stato un innalzamento delle retribuzioni, in particolare di quelle delle donne, perché i settori che hanno retribuzioni mediamente più basse rispetto alla quota di cui si parla, a 9 euro lordi o 9,5, sono settori in genere molto femminili. Quindi Meloni usa alibi per dire no in una situazione in cui noi sappiamo bene che la tendenza è continuare ad abbassare e reprimere le retribuzioni. Quotidianamente leggiamo proposte di lavoro scandalose. In realtà stiamo tornando a una discussione sui fondamenti: il lavoro è tale se è pagato, se no o è gentile donazione o è sfruttamento, non ci sono alternative possibili.

Pensa che le modifiche al Reddito di cittadinanza, con la possibilità di togliere il sussidio agli occupabili, possano penalizzare ancora una volta le donne?

Aspettiamo di capire come sarà il testo finale di questo provvedimento. Però anche qui c'è da parte dell'esecutivo una non capacità di leggere i problemi perché se pensiamo alle categorie che percepiscono il sussidio e che secondo il governo sono occupabili, vediamo che si tratta di disoccupati di lunga durata, uomini o donne che siano è difficilissimo il loro reingresso nel mercato del lavoro, se non ci sono ne frattempo programmi di riqualificazione, accompagnamento e di rimotivazione; e poi ci sono le ragazze sole, che se hanno un figlio a cui pensare e sono costrette ad andare a lavorare a 150-200 Km da casa non sanno come fare, non hanno una struttura sociale che permetta loro di affrontare questo impegno; sono le persone che non possono spostarsi, perché i costi dello spostamento non sarebbero sostenibili. In questa categoria possono rientrare anziani o giovani, ai quali se venisse proposto di trasferirsi per un contratto a termine dalla Basilicata a Milano, non ce la farebbero mai con i redditi di un contratto di breve periodo. A meno che non si pensi che debbano dormire in macchina o per strada.

Per favorire la natalità il ministro Giorgetti ha proposto di tagliare le tasse per le famiglie con figli. Si è ipotizzata una detrazione di 10mila o 5mila euro l'anno per ogni nato. Solo uno spot elettorale?

Sì, non ci sono 7-8 miliardi per mettere in piedi una proposta simile, non sta né in cielo né in terra. Ma oltre a essere del tutto inutile se lo scopo è incentivare le nascite, è anche profondamente ingiusta, anche perché non rispetta la volontà delle persone ed esclude tutti coloro non possono scegliere se diventare genitori o meno perché hanno degli impedimenti che non sono risolvibili. Non è un caso che gli strumenti per sostenere le famiglie, che ci sono ed è giusto che ci siano, non sono mai stati pensati in quella dimensione, ma sempre come erogazioni ad hoc, che per altro vanno calibrate in base ai mezzi di ognuno: si sa che ci sono famiglie che non hanno alcun bisogno di aiuti economici a fronte di tante altre che invece ne avrebbero bisogno. Alla fine questa proposta ha un sapore insopportabile perché sembra dire ai cittadini che il loro dovere è fare i figli per la patria. Ma al netto di tutto questo, si ignora che se c'è un tema di instabilità economica non si risolve in quel modo. Non si affronta così il tema della denatalità. Se hai contratti brevi, ti senti sempre precario, hai sempre retribuzioni basse, come fai a fare figli? Pensiamo agli incapienti o a quei lavoratori a ‘part time involontario', con retribuzioni che arrivano al massimo a 500-600 euro al mese.

Sono proposte per accalappiare consenso, che dietro non hanno una visione sociale del nostro Paese, ma dei principi morali che si vorrebbero vedere applicati alle persone. Ma non è questo il compito dello Stato.

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