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Ancora armi a Israele da un porto italiano, stavolta Ravenna blocca tutto. Ma il governo si chiama fuori

Il porto di Ravenna blocca container di esplosivi diretti a Israele su pressione di istituzioni locali e portuali, mentre il governo Meloni si dichiara estraneo alla vicenda, alimentando contraddizioni sulle forniture militari. Intanto la mobilitazione dei lavoratori portuali si estende in tutta Europa.
A cura di Francesca Moriero
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Al porto di Ravenna, giovedì sera, due camion con a bordo container carichi di esplosivi non hanno varcato i cancelli del terminal container. Quei mezzi erano partiti dalla Repubblica Ceca e avrebbero dovuto imbarcarsi su una nave della compagnia israeliana Zim, diretta ad Haifa. Il blocco è stato imposto dalle istituzioni locali, Comune, Provincia e Regione Emilia-Romagna, che, in qualità di azionisti pubblici della società portuale Sapir e della controllata Terminal Container Ravenna (TCR), hanno chiesto e ottenuto che il carico non entrasse in porto. La decisione è maturata dopo giorni di mobilitazione cittadina e il clima acceso di una protesta che, appena pochi giorni prima, aveva portato in piazza migliaia di persone con lo slogan "Fuori Israele dal porto di Ravenna".

Un allarme partito dai portuali

L’allerta era scattata nei giorni precedenti alla manifestazione, quando alcuni operatori portuali avevano segnalato la presenza dei camion già al confine tra Austria e Italia. Il sospetto era chiaro: un nuovo carico destinato a rifornire l’esercito israeliano impegnato nel genocidio a Gaza. Le segnalazioni hanno spinto gli enti locali a prendere così immediatamente posizione, inviando una lettera alla Sapir per chiedere che l'accesso non fosse concesso: "È sempre più urgente prendere posizioni nette. Non possiamo fingere di non sapere: contribuire al massacro di Gaza è disumano”, ha dichiarato il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni. Su proposta delle istituzioni, è stata così avanzata la richiesta di modificare i codici etici delle società portuali, inserendo tra i principi vincolanti il rispetto dei diritti umani e l’impegno per la pace. La direzione delle aziende ha accolto l'invito, e i camion sono ripartiti senza scaricare la merce. La destinazione finale, però, non è stata comunicata ufficialmente.

Il governo si chiama fuori

Se a livello locale le istituzioni hanno agito per bloccare il carico, dal governo Meloni la risposta è stata invece molto diversa. Interpellato al Senato durante il question time, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha infatti affermato: "Non serve autorizzazione per nulla che parta dai porti, quindi io non so nulla di cosa è successo perché non sono armi italiane e munizioni italiane". Una risposta che stride con la legge 185/1990, che vieta non solo l'esportazione ma anche il transito di materiali darmamento verso Paesi in guerra o accusati di violazioni dei diritti umani. E che contrasta anche con le dichiarazioni ufficiali che, negli ultimi mesi, assicuravano il blocco della fornitura di armi a Israele.

Un precedente ignorato

Non si tratta del primo caso a Ravenna. Il 30 giugno scorso, un container di esplosivi, proveniente anch’esso dalla Repubblica Ceca, era riuscito a entrare nel porto e a salpare senza ostacoli verso Haifa, dove è arrivato il 4 luglio. In quel caso, nessun blocco né allerta: le Dogane non avevano infatti registrato anomalie, e la spedizione era avvenuta nel silenzio. Il problema, sottolineano alcune ONG, è che secondo la normativa vigente, quei transiti dovrebbero essere riportati nelle "tabelle Q" allegate alle relazioni annuali del governo al Parlamento. Ma come denuncia Carlo Tombola di Weapon Watch, nemmeno nei rapporti ufficiali del 2024 compare alcun riferimento a transiti di armi da porti italiani: "Significa che nessun operatore chiede l’autorizzazione, né nel 2024 né negli anni precedenti. È una prassi illegale, in contrasto con la legge italiana e con il trattato internazionale sul commercio di armi".

La rete dei portuali

Quello che accade a Ravenna non è un episodio isolato, ma un tassello di una mobilitazione che negli ultimi anni ha coinvolto diversi scali del Mediterraneo. A Genova, per esempio, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) si è già distinto per aver bloccato più volte carichi diretti in Israele. Dalla Liguria la protesta si è poi estesa oltre i confini nazionali, dando vita a una rete di solidarietà con i lavoratori portuali francesi e greci. Quest'estate, ad esempio, a Fos-sur-Mer, uno dei grandi scali commerciali del sud della Francia, tre container della compagnia israeliana Zim, al cui interno erano nascosti componenti di mitragliatrici destinati all’esercito israeliano, sono stati fermati grazie a un presidio congiunto. Situazioni simili si sono ripetute al porto del Pireo, in Grecia, dove i sindacati locali hanno impedito l’imbarco di navi cinesi e taiwanesi che trasportavano armi smontate in più parti, un espediente studiato per aggirare i controlli doganali. Anche lì la pressione dei portuali è riuscita a bloccare l’operazione. A rafforzare questa rete internazionale è nata la piattaforma No Harbour for Genocide, sviluppata all’interno del movimento BDS. Non si tratta di un semplice slogan, ma di un vero e proprio strumento di monitoraggio: un database aggiornato in tempo reale che traccia le rotte delle navi sospettate di trasportare armamenti, carburanti o beni a duplice uso; per ciascuna imbarcazione vengono segnalati nome, numero identificativo, bandiera e compagnia di appartenenza. Uno strumento pensato per fornire ai portuali e agli attivisti informazioni precise, utili a organizzare blocchi mirati e a trasformare la protesta in un’azione concreta, capace di incidere sulle catene globali dei rifornimenti militari.

La vicenda di Ravenna torna a mettere a nudo una contraddizione che il governo continua a non risolvere: da un lato, le dichiarazioni ufficiali con cui l'Italia sostiene di aver sospeso ogni esportazione di armi verso Israele; dall'altro, una realtà fatta di spedizioni che continuano a transitare indisturbate nei porti italiani, senza controlli efficaci, senza trasparenza e fuori da ogni tracciabilità istituzionale.

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