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“A Gaza non c’è fame, la Palestina è un’invenzione”: ecco come si normalizza l’orrore

La negazione dell’orrore non è un errore, ma un preciso strumento politico. Oggi, a Gaza come in molti altri luoghi, il male si perpetua anche grazie a chi sceglie di non vedere.
A cura di Francesca Moriero
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Hannah Arendt scriveva che il male, nel suo volto più terribile e malvagio, è banale: non nasce da mostri eccezionali, ma da persone comuni che rinunciano a pensare, che si rifugiano nell'obbedienza, che smettono di guardare. Oggi a Gaza, come in molti altri luoghi, quella banalità si manifesta non solo nell'atto distruttivo, violento e sadico ma soprattutto nel modo in cui l'orrore viene negato. L'evidenza è sotto lo sguardo di chiunque voglia vedere ma c'è sempre qualcuno pronto a dire che non è accaduto, che non è provato, che si tratta di una messinscena. Così dei corpicini bruciati vivi vengono liquidati come invenzioni, le case ridotte in polvere diventano miniature di cartone, le urla di chi sopravvive semplici voci di attori malpagati. "Palestine is a made-up fiction", ha detto ieri il senatore americano Thomas Bryant Cotton, detto Tom, al giornalista di AlJazeera Josh Rushing. La Palestina è una finzione inventata."There's no famine in Gaza", ha poi aggiunto. A Gaza non c'è una carestia.

Tom Cotton, Credit: AlJazeera
Tom Cotton, Credit: AlJazeera

Non occorre però andare fino agli Stati Uniti del 2025 per riconoscere la stessa dinamica; la negazione ha un filo unico che attraversa lingue, paesi ed epoche: è una strategia senza confini, sempre uguale a se stessa. "Quello che è successo è o un incidente interno o se lo sono fatti loro", ha detto ieri, per esempio, Marco Lisei, senatore di Fratelli d'Italia, a proposito del secondo attacco con droni alla Global Sumud Flotilla, la missione civile diretta a Gaza per rompere simbolicamente l'assedio israeliano.

La negazione non è un incidente della storia, è un dispositivo politico. È la tecnica con cui si rende tollerabile l'intollerabile, normalizzabile ciò che non dovrebbe mai esserlo. Basta inondare lo spazio pubblico di dubbi, insinuare che ogni testimonianza sia sospetta, che ogni prova sia manipolata, che la realtà sia solo un'opinione tra le tante. È così che l'orrore smette di pesare, smette di indignare, smette persino di esistere.

Il male non ha bisogno di eroi per trionfare, gli bastano spettatori che accettano di farsi ingannare. È comodo credere che nulla sia certo, che tutto sia propaganda, che tutto sia manipolazione e che tutto sia opinabile. È facile credere che l'orrore sia soltanto uno fra i tanti racconti possibili. In questo modo evitiamo di assumerci il carico della verità e della responsabilità. Ma è proprio in questo processo che si compie la complicità, nell'accettare di non nominare, di non vedere, di non credere neppure ai nostri stessi occhi.

La responsabilità, oggi, si misura qui, nella capacità di resistere alla tentazione di dubitare di ciò che è evidente, di lasciarsi convincere che la realtà sia sempre sfuggente. Non servono gesti titanici, basta un atto minimo ma radicale: riconoscere l'orrore per quello che è, dargli un nome, senza cedere alla comodità della negazione. Anche quando tutto intorno lavora per cancellarne le tracce.

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Genovese trapiantata a Roma. Ho lavorato per Class Editori e Radio3 e ho frequentato la scuola di giornalismo Lelio Basso. Per molti anni, come freelance, mi sono occupata di politica nazionale e internazionale, realizzando reportage sul campo in Paesi come Turchia, Siria, Albania, Bosnia. Ho collaborato con Domani, Internazionale, il manifesto, Lifegate e Tpi. Oggi a Fanpage scrivo di politica e tematiche sociali. 
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