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Opinioni

Petrolio a 80 dollari al barile: chi ci guadagna e chi ci perde

Il governo è distratto dalle chiacchiere attorno al Tfr e alla manovra finanziaria, mentre i mercati innestano la retromarcia spaventati dal crollo delle quotazioni del petrolio. Cerchiamo di capire chi ci guadagna e chi rischia di perderci di più…
A cura di Luca Spoldi
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Distratti dal chiacchiericcio politico italiano che si concentra attorno al tema del Tfr in busta paga e alle amene “coperture” con cui si vorrebbe far validare da Bruxelles una Legge di Stabilità “da sogno” (o da incubo, a seconda) da 30 miliardi di euro, forse non ci avete fatto caso, ma con l’ennesimo capitombolo odierno Wall Street ha in pratica azzerato ogni guadagno segnato da inizio anno, mentre i bond continuano a correre. Cosa è successo? Che il tracollo dei prezzi del petrolio, ormai in calo ad tre mesi ed arrivato a oscillare attorno agli 82 dollari al barile, si sta scaricando sugli indici (non solo di Wall Street ma delle principali borse mondiali, Milano compresa) perché gli investitori temono che sia un presagio di una nuova fase recessiva mondiale e che a pagare lo scotto maggiore siano gli asset maggiormente a rischio (titoli azionari e bond ad alto rendimento come quelli di emittenti della “periferia” europea come Grecia, Spagna o Italia) e pertanto si spostano su “porti sicuri” come T-bond, Bund o metalli preziosi (l’oro è tornato a sfiorare i 1250 dollari l’oncia, l’argento ha superato nuovamente i 17,60 dollari l’oncia).

All’interno del comparto azionario a pagare lo scotto maggiore sono titoli del comparto petrolifero, dalle grandi compagnie come Eni, Total o Exxon Mobil a chi come Tenaris costrusce tubature, piuttosto che come Saipem, attiva nel settore dei servizi alle società petrolifere, piuttosto che produttori di energie rinnovabili come Enel Green Power. Una “doccia fredda” in piena regola scatenata da un mix di fattori decisamente poco favorevoli. Anzitutto i dati macroeconomici usciti dalla fine dell’estate ad oggi si sono sistematicamente rivelati inferiori alle previsioni non solo in paesi come l’Italia che non crescono più da un quindicennio ma anche in “locomotive” (o presunte tali) come la Germania e la Gran Bretagna.

Il timore che l’incapacità di gestire la crisi economico-politica europea possa saldarsi a crisi geopolitiche striscianti, nell’Est Europa come in Medio Oriente, e ad un rallentamento della crescita di paesi emergenti come Cina, Brasile e Russia (che dipende fortemente dalle proprie esportazioni petrolifere e che sta subendo i contraccolpi delle sanzioni economiche decise da Stati Uniti ed Unione europea in risposta all’aggressione all’Ucraina degli scorsi mesi), ha improvvisamente riportato tutti coi piedi per terra, facendo partire un ribasso all’inizio selettivo e poi sempre più generalizzato delle valutazioni e delle quotazioni. Nel frattempo, ad uno scenario di forte crescita della produzione statunitense da shale oil e shale gas (vista in crescita sia quest’anno sia il prossimo) e contemporaneamente ad un rallentamento della crescita della domanda mondiale di petrolio, si sono associate voci di un interesse dell’Arabia Saudita a “rompere” importanti livelli di prezzo, così da lasciar calare le quotazioni del greggio sotto quei livelli che rendono conveniente l’estrazione dello stesso dalle sabbie scistose del Nord America.

Giacimenti di per sé più costosi da sfruttare che non quelli presenti sotto le sabbie del Medio Oriente e che spesso presentano tassi di calo della produzione molto elevati già pochi anni dopo l’avio della produzione, tanto da necessitare continui investimenti che però secondo alcune stime sarebbero convenienti in ogni caso con un petrolio sopra i 100 dollari al barile, ma solo per il 40%-60% delle società con un prezzo inferiore ai 90 dollari al barile. La decisione di Riad, spalleggiata da altri membri dell’Opec (che invitato dall’Agenzia internazionale per l’energia a tagliare di almeno 200 mila barili al giorno la propria produzione ha ribattuto che dovrebbero essere americani e canadesi a fermare le trivelle), sarebbe dunque una risposta al “sorpasso” che gli Stati Uniti dovrebbero compiere entro fine mese proprio ai danni dell’Arabia Saudita riconquistando un primato mondiale perso ormai dal 1991.

Secondo la Energy Information Administration la produzione Usa aumenterà del 14% a 8,53 milioni di barili al giorno quest’anno per poi raggiungere i 9,53 milioni al giorno nel 2015 (il massimo mai toccato dal 1970 e contro i 5 milioni a cui si trovava ancora nel 2008), mentre Riyadh, che per alcuni analisti è pronta a tollerare un prezzo del petrolio anche sotto gli 80 dollari al barile per un anno o due, sta estraendo attorno ai 9,7 milioni di barili al giorno e ha già iniziato a vendere il suo prodotto applicando sconti ai grandi acquirenti. Tra i due litiganti a rischiare di rimetterci le penne potrebbe essere la Russia di Putin, che produce 10,1 milioni di barili di petrolio al giorno e come detto sta iniziando a scontare gli effetti delle sanzioni economiche occidentali seguite alla crisi con l’Ucraina.

Sebbene lo scenario di una rottura tra Washington e Riyadh ecciti la fantasia di molti, anche per le possibili conseguenze in termini di alleanze geopolitiche in una polveriera come il Medio Oriente, secondo più di un analista proprio la Russia (e di contorno qualche paese "non allineato" come il Venezuela) sarebbe il bersaglio della manovra dell’Opec, col tacito accordo degli Usa. Un gioco pericoloso anche per quei paesi come l’Italia che rischiano di fare la fine del vaso di coccio tra vasi di ferro, visto che le nostre imprese sono da tempo fortemente interessate a progetti nel settore petrolifero portati avanti con aziende russe e di altre ex repubbliche sovietiche.

Eni, ad esempio, ha una partecipazione del 16,8% nel consorzio di sviluppo del maxi giacimento di Kashagan, in Kazakistan, già costato 50 miliardi di dollari in un continuo lievitare negli anni i costi rispetto alle stime originarie (le ultime indiscrezioni, rilanciate dal Financial Times pochi giorni fa, parlano di 200 chilometri di condutture da riparare o sostituire, con un possibile ulteriore esborso tra gli 1,6 e i 3,6 miliardi di dollari per il consorzio di gestione), con slittamenti dei tempi di entrata in produzione (doveva partire entro il 2012, se andrà bene partirà tra fine 2016 e inizio 2017) e lievitazione del punto di pareggio (50 dollari al barile stimati nel 2011, una sessantina attualmente).

Saipem, sua controllata, è impegnata nel progetto del gasdotto South Stream destinato a portare il gas russo di Gazprom (socio al 50% del progetto, mentre Eni è socia al 20%) dalla Crimea all’Europa attraverso Bulgaria, Serbia e Slovenia (e per il braccio sud attraverso Grecia e Italia), progetto già costato 23,5 miliardi di euro, 2 dei quali finiti nelle tasche di Saipem per la progettazione e costruzione della prima linea del tratto off-shore, che ora starebbe subendo un ritardo nella concessione dei finanziamenti per il proseguo dell’opera. Così mentre il calo del prezzo del greggio è potenzialmente una buona notizia perché rappresenta un caso di deflazione “positiva”, non legata ad un taglio dei salari e dei redditi ma dei costi che gravano su tutta la filiera produttiva oltre che direttamente nelle tasche degli italiani (e che dunque potrebbe contribuire a sostenere un minimo i consumi), l’aumento dei rischi che stanno sopportando anche le nostre maggiori imprese potrebbe avere conseguenze serie anche in termini occupazionali.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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