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La storia del baby boss Emanuele Sibillo, ES17: quando la camorra diventa brand

Emanuele Sibillo, il capo della “paranza dei bimbi”, è stato ucciso nel 2015, aveva 20 anni. Intorno alla sua figura la camorra ha costruito un mito: è diventato un simbolo, che è ancora vivo in determinati contesti del centro di Napoli. Una operazione di marketing che ha trasformato una banda criminale in un clan che ancora spadroneggia tra i vicoli del centro di Napoli.
A cura di Nico Falco
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Un idolo, un simbolo, appena un gradino più in basso di un santo. Questo è Emanuele Sibillo, il capo della paranza dei bambini ucciso ad appena venti anni in un agguato di camorra. Dalla sua morte sono passati sei anni, ma il tempo non ha scalfito il mito, lo ha anzi ingigantito: prototipo formidabile della camorra che fa marketing, che diventa un brand e che si auto alimenta dell'alone leggendario costruito intorno alla figura del baby boss. Tanto che, a sei anni dalla sua morte, le sue ceneri erano venerate come una reliquia: le vittime del racket dovevano inginocchiarsi davanti all'altarino che i suoi familiari avevano costruito.

Chi era Emanuele Sibillo, ucciso a 20 anni in un agguato

Il clan Sibillo nasce come una delle tante articolazioni dell'Alleanza di Secondigliano (in particolare del clan Contini), banda di giovanissimi dal grilletto facile e con una vaga ispirazione alle gang sudamericane. Il primo arresto per Emanuele Sibillo arriva nel 2010, quando ha 15 anni: la polizia fa irruzione in casa sua e lui lancia due pistole dalla finestra per non farle trovare. Va in comunità per minorenni, dove inizia a farsi notare, ma in positivo: è rispettoso, studioso, sembra riabilitato del tutto. Un anno dopo, però, evade. Viene catturato e rinchiuso, questa volta nel minorile di Nisida. Viene quindi trasferito in un'altra comunità, dove ancora una volta si distingue: partecipa a un corso di giornalismo, si occupa di servizi sul disagio giovanile, impara il montaggio video.

Nel 2012, nel periodo di Natale, torna in libertà. E torna alla camorra. Sei mesi dopo è tra i partecipanti a un summit tra varie famiglie di camorra. E a 18 anni è il capo della "paranza dei bimbi", che si contende a suon di pallottole il predominio tra i vicoli del centro storico coi Buonerba, che invece sono legati al clan Mazzarella. Il 2 luglio 2015, durate uno dei vari raid contro i "capelloni", si ritrova in una imboscata: il suo gruppo viene circondato, lui viene colpito alla schiena. Muore poco dopo al Pronto Soccorso dell'ospedale Loreto Mare.

Emanuele Sibillo durante il corso di giornalismo
Emanuele Sibillo durante il corso di giornalismo

Il mito di Emanuele Sibillo, ES17

La storia di Emanuele Sibillo, con una carriera criminale che tutto sommato è durata tre anni, sembrerebbe destinata a perdersi tra i vicoli di Napoli. Ma questo non succede. E non succede perché sarebbe sbagliato (per quanto ovvio) liquidarla come una semplice vicenda di camorra, in cui un giovanissimo criminale è stato ucciso in uno scontro tra bande: Napoli purtroppo piange decine di ragazzi vittime delle proprie scelte sbagliate, ma non tutti diventano Emanuele Sibillo. Perché, nei pochi anni di "carriera", il baby boss si era costruito un mito intorno, seppur, inutile specificarlo, in un determinato contesto. Popolare tra i giovanissimi, perché giovanissimo anche lui, ed esempio di chi, in questa visione distorta che spesso si fa strada dove le alternative sono poche e le Istituzioni latitano, era riuscito a farsi strada.

La costruzione dell'icona era cominciata dall'aspetto. Di quel clan Emanuele non era certo l'unico componente (il padre era pregiudicato e ha proseguito negli "affari" dopo la sua morte, così come il fratello Pasquale, arrestato quattro mesi dopo l'agguato al 20enne, nel novembre 2015), ma era, volendo fare un paragone col mondo dello spettacolo, il front man. Testa rasata, grossi occhiali da vista, lunga barba che in quel periodo nell'immaginario collettivo era associabile ai jihadisti: un look studiato, diventato iconico. E non è una esagerazione, visto che, anni dopo, durante il carnevale sui social arrivarono le foto di bambini della zona vestiti esattamente come lui: un segno di omaggio, di rispetto, ma soprattutto di ammirazione.

L'altare di Emanuele Sibillo e l'inchino al boss

Prima di morire, Emanuele Sibillo era già diventato ES17. E come Emanuele, S come Sibillo, 17 come la diciassettesima lettera dell'alfabeto, appunto la esse. Una sigla, poi diventata FS (Famiglia Sibillo) che poi è stata presa in prestito da numerose famiglie di camorra: in un video di musica trap in cui interpreta un giovane camorrista, il figlio del boss Massimiliano Esposito di Bagnoli porta al petto un enorme ciondolo con il numero 65, che sta per Famiglia Esposito.

Negli anni successivi il mito nero di Sibillo si è evoluto, con tanto di altarino privato, smantellato nell'operazione eseguita oggi dai carabinieri, che hanno arrestato 21 persone ritenute collegate al clan Sibillo. Si trovava nel cortile dell'edificio dove ancora vive la famiglia, con urna delle ceneri e piccolo busto. Era lì, davanti a quel mausoleo, che dovevano sfilare le vittime del racket, quando consegnavano il pizzo. Pagamento ai familiari, omaggio al santo laico.

L'altare per Emanuele Sibillo
L'altare per Emanuele Sibillo

La camorra diventa un brand

"Puoi ottenere tutto ciò che voi se sei vestita per averlo", disse una volta Edit Head, 35 candidature e 8 premi Oscar per i migliori costumi. E il clan Sibillo, di questa frase, sembra averne fatto un mantra. Perché, tutto sommato, quel gruppo criminale non era certo il più potente, nemmeno il più esteso territorialmente: feroce, ma soltanto in una manciata di vicoli. Quindi ha puntato sul marketing, sulla riconoscibilità. Per vendersi, per arrivare con la pubblicità dove non poteva arrivare con le pistole. Prendendo e mutuando da quello che già si era visto nella camorra napoletana. Come avrebbero fatto, qualche anno dopo, anche i "Barbudos", i Genidoni-Esposito della Sanità: barba lunga, tatuaggi su tutto il corpo,  compreso il "marchio" col nome del boss sul petto.

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Ad inaugurare questo filone di camorra-spettacolo era stato, dieci anni prima, Cosimo Di Lauro, figlio di Ciruzzo il Milionario. Qualcuno si azzardava a chiamarlo "Cosimino lo zoppo", perché tale era dopo un incidente in moto. Ma non era certo quello un soprannome da boss. E così, capelli lunghi tirati all'indietro, giacca di pelle nera fino alle ginocchia: il capo del clan, quello che stava guidando una guerra contro gli Scissionisti, doveva avere un look iconico e spaventoso allo stesso tempo. Come quello del Corvo, il personaggio immortale e implacabile interpretato da Brandon Lee.

Cosimo Di Lauro al momento dell'arresto
Cosimo Di Lauro al momento dell'arresto
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