
Ce lo possiamo dire consapevolmente, senza indignarci e fare gli ipocriti? È bastato riaprire i locali, attendere qualche settimana di legittimo ‘reciproco sospetto' ma ora ci siamo lasciati tutto alle spalle. Il lockdown, la paura del Coronavirus, ormai è diventato una specie di blando argomento di discussione, più appassionante del calcio, meno complicato della critica ad una serie televisiva o ad un film recente.
Abbiamo dimenticato la paura, la frustrazione e la tristezza per quanto accaduto non dieci anni fa, ma 5 mesi fa, dal marzo scorso in poi. I congiunti, le ordinanze, i dpcm, le autocertificazioni. L'amuchina, il lievito e le ffp3 introvabili, i bollettini della Protezione civile in diretta alle 18.30.
Qui ci si sente un po' come l'Eduardo De Filippo/ don Gennaro Jovine di Napoli Milionaria quando, reduce di guerra, torna dopo aver visto orrore su orrore, ne vuole parlare ma tutti gli dicono che è finita la guerra e non bisogna pensarci più. «La guerra non è finita» ammonisce don Gennaro ma tutti lo ignorano, quasi, lo prendono per pazzo, per menagramo.
La guerra d'oggi non è più sorprendente: sappiamo cosa ci troviamo davanti, cosa è il virus e cosa fa al corpo umano. Sappiamo anche che per ridurre l'esposizione al contagio dobbiamo indossare la mascherina, evitare i luoghi troppo affollati o comunque proteggerci adeguatamente.
A Napoli, in Costiera Amalfitana, sulle Isole del golfo, in Cilento, in tutta la Campania abbiamo rapidamente dimenticato la parte peggiore di quest'inizio 2020 e ci affidiamo chissà, all'idea che forse il Coronavirus qui non attacca perché siamo speciali. Ci sono quasi 500 morti che potrebbero dire il contrario, se solo potessero parlare.
