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Mps: aumento di capitale garantito dallo stato o conversione dei bond subordinati?

Mps sull’ottovolante, mentre circolano ipotesi di un “intervento pubblico straordinario” ancora da definire in accordo con le regole Ue. Qualcuno grida alla possibilità che l’incertezza favorisca l’intervento di qualche trader, ma è un abbaglio: il mercato ha già certificato il fallimento di almeno un decennio di gestione del credito bancario in Italia…
A cura di Luca Spoldi
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L’imperioso rimbalzo (si fa per dire) con cui oggi il titolo del Monte dei Paschi di Siena ha chiuso la seduta a 28,1 centesimi di euro per azione (+6,07%) per poi allungare ulteriormente nella seduta after hours a 29,2 centesimi (+3,8% ulteriore, che peraltro andrà confermato, o meno, domattina), è frutto di un mero rimbalzo a gatto morto, dell’attesa per un “intervento pubblico straordinario” che potrebbe essere giustificato dalla “circostanza eccezionale” nel caso in cui l’istituto non superasse gli stress test Bce, i cui esiti saranno resi noti a fine  mese o è il segno che a questi prezzi, come segnala qualche quotidiano italiano che a questi prezzi c’è “più di un timore” (o speranza?) della possibilità, udite udite, di un “take-over da parte di qualche investitore raider”?

Facciamo un breve riassunto e la risposta apparirà chiara: Mps ha perso un quarto del suo valore in tre giorni (-14%, -17%, +6% in sequenza) vedendo la sua capitalizzazione ridursi a neppure 830 milioni di euro perché la Bce, come ha dovuto confermare l’istituto ufficialmente, ha espressamente richiesto che le dismissioni di Npl (Non performing loans, crediti più o meno “marci” che ormai valgono solo una frazione del loro valore nominale) e nell’arco del triennio 2016-2018 passino dai previsti 5,5 miliardi a 10 miliardi. Dato che tali asset si vendono al momento al 20% del valore nominale e anche se è auspicabile, ma non certo, che i valori possano salire col passare dei trimestri difficilmente si venderanno per il 30% del loro valore nominale (possiamo dunque assumere un valore medio del 25%), essendo la copertura di questi crediti, che a fine marzo erano nel complesso pari a 47 miliardi, stata portata al 49%; la minusvalenza da segnare in bilancio non sarà di circa il 25%-30% su ulteriori 4,5 miliardi.

In sostanza la banca “perderà” oltre 1,25-1,50 miliardi di euro in più del previsto, da spalmare sul triennio, rispetto ai valori indicati dal piano industriale. Si potrebbe anche notare che un miliardo e mezzo non è una cifra pazzesca, basterebbe un relativamente modesto aumento di capitale per bilanciarla. Purtroppo con valori così depressi del titolo aumentare di 1,5 miliardi (o più: sul mercato si parla di un aumento da 3-3,5 miliardi, così da coprire totalmente sia le “nuove” minusvalenze destinate a emergere sia quelle già messe in conto) significherebbe diluire fortemente gli azionisti attuali tra cui la Fondazione Montepaschi che dal 50,5% del 2011 (quando venne lanciato il primo aumento da 2 miliardi di una serie di ricapitalizzazioni che in totale in questi anni ha “bruciato” 8 miliardi di euro) è ormai scesa a poco più dell’1,5% e pure grazie al patto con Btg Pactual e Fintech Advisory cerca ancora di mantenere un ruolo di “socio nobile”.

Così ecco che avanza il sospetto che in fondo tutto questo terremoto che ha scosso le banche italiane (ed ormai anche quelle europee, per via dei timori di un effetto-domino di cui ha parlato anche Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Societe Generale) sia in fondo null’altro che una sordida manovra di speculatori interessati a comprare per un pezzo di pane asset strategici come Mps, Carige, Veneto Banca o Bpvi, magari poi per fonderle insieme, che sfrontatezza! Come dubitarne, visto che tali istituti (ma non solo loro: Unicredit e Intesa Sanpaolo da sole hanno Npl per una settantina di miliardi) sono riusciti a bruciare decine di miliardi di capitali privati e minacciano di bruciarne altrettanti di pubblici (ossia dei contribuenti italiani) per rimanere in piedi, dopo aver continuato a seguire un modello di business che definire superato è un velato eufemismo, ad esempio continuando ad aprire filiali e ad assumere personale quando ormai la clientela si orientava sempre più verso l'e-banking?

Si dirà: un raider, un novello Gordon Gekko, non si preoccupa di costruire valore per gli azionisti nel lungo periodo, semmai prova ad estrarlo (per sé) nell’immediato. Sarà vero, ma ad occhio e croce il valore creato per gli azionisti dagli ultimi 10 anni di gestione delle banche italiane non è così esorbitante, per cui il rischio forse è inevitabile ma quanto all’attribuzione di colpa sulla distruzione di valore tra bassa redditività degli istituti, casi di mala gestione e tassi sotto zero se ne potrebbe discutere a lungo. Le discussioni tuttavia in questo caso lasciano il tempo che trovano, il punto è: come uscirne? Alcuni colleghi con maggiore dimestichezza del sottoscritto dell’arte del trading suggeriscono che per rafforzare le banche pericolanti lo stato italiano emetta un titolo zero coupon a lunghissima scadenza, lo concambi con gli Npl ed eventualmente quote di capitale delle banche e in questo modo consenta agli istituti di portare il titolo medesimo in Bce per ottenere nuova liquidità, liberandosi al tempo stesso di una parte consistente dei crediti “marci”.

Il problema ovviamente, al di là delle tecnicalità, è lo stesso: quale sarebbe il corretto rapporto di concambio tra un titolo che renderebbe relativamente poco e i rischi di future minusvalenze che graverebbero sullo stato italiano? O, detto in altri termini, quale rendimento dovrebbero garantire gli Npl per ripagare l’onere che l’emittente pubblico subirebbe? Inoltre siamo sicuri che la Germania e la Ue in genere sarebbero d’accordo? In realtà sembra essere un’altra la via che alla fine il governo italiano e le sue banche dovranno seguire: valutare la conversione forzosa di emissioni obbligazionarie subordinate emesse dalle banche (e nel frattempo, dopo il caso delle quattro banche risolte in dicembre, non più rinnovabili). Col capitale così rafforzato si potrebbe poi procedere a nuove svalutazioni degli Npl ovvero ad innalzare ulteriormente gli accantonamenti, sino a chiudere il gap di prezzo tuttora esistente tra domanda e offerta di tali asset.

Sarebbe in realtà una soluzione “market friendly” ma poco amichevole nei confronti di migliaia se non milioni di risparmiatori, ai quali i bond bancari sono sempre stati venduti come se fossero sicuri alla pari o più dei titoli di stato. Una bestemmia in termini finanziari che in troppi hanno fatto finta di non udire per poter ora gridare allo scandalo, eppure siamo certi che se davvero questa sarà la soluzione finale alla crisi del credito bancario italiano, si alzeranno alte grida di dolore da parte di tutti i leader politici. Nessuno dei quali, ovviamente, penserà di dare le dimissioni. Quelle, semmai, le danno in Gran Bretagna politici che sino a ieri promettevano mirabilie grazie alla Brexit e che adesso fanno a gara ad uscire di scena, prima che qualcuno chieda loro conto di promesse che non sono in grado di mantenere. Strana gente gli inglesi, vero?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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