127 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

“Minoritarizzazione linguistica”: quando nel mondo virtuale si perde la propria lingua

La notizia allarmata viene dall’Islanda: l’islandese è sempre meno usato, in favore dell’inglese. E fra le nuove cause c’è il suo essere tagliato fuori dal mondo digitale: ad esempio Facebook parla male in islandese, Siri non lo parla. Le nuove generazioni optano quindi per un uso dell’inglese che trabocca anche nelle interazioni di persona, a discapito della lingua madre. Qual è il problema generale? E l’italiano corre rischi simili?
A cura di Giorgio Moretti
127 CONDIVISIONI
Immagine
Attiva le notifiche per ricevere gli aggiornamenti su

Il mondo digitale ha la caratteristica di una bassa diversità linguistica. Secondo i dati di Statista riportati nel Times of India alla fine del 2018, dieci lingue, dieci sole, si spartiscono il 90% dei dieci milioni di siti internet più trafficati, e più della metà è in inglese. Lingue gigantesche, parlate da centinaia di milioni di persone, come l'arabo e l'hindi, hanno una rappresentanza digitale praticamente insignificante. Figuriamoci quale può essere l'effetto dello spalancarsi del mondo digitale su comunità linguistiche di poche migliaia di parlanti: fra coloro che in queste comunità padroneggiano l'inglese e coloro che non lo conoscono si squarcia un abisso per quanto riguarda l'accesso a notizie, informazioni, servizi, ai social network, a tutte quelle tecnologie che richiedono di interfacciarsi con una lingua maggiore. E questo abisso porta disuguaglianze: i vecchi, i poveri e gli ignoranti sono destinati a restare ultimi, anche nei diritti digitali. Inoltre, se la comunità non ha un particolare prestigio, se non attrae speciali interessi economici, coloro che in virtù dell'inglese hanno accesso al vasto mondo globalizzato attraverso la rete, possono tendere ad abbracciare questa lingua anche fuori dalla rete, perdendo dimestichezza con la lingua madre. Succede in Islanda: il Guardian riporta che s'iniziano a registrare casi in cui gli adolescenti islandesi usano l'inglese per parlare fra loro nelle ore di gioco, e che talvolta i bambini conoscono una parola inglese ma non l'omologa islandese. La situazione è seria, perché la sopravvivenza stessa di questa lingua è in pericolo. Non è un caso isolato, ma questo genere di situazione ha delle peculiarità.

La Repubblica d'Islanda ha 330.000 abitanti. Più o meno la popolazione di Bari. Non è un Paese particolarmente ricco, e il suo ecosistema è di una fragilità tale che gli insediamenti umani, nei secoli, vi si sono potuti sostentare a stento, confrontandosi sempre col rischio imminente di un tracollo ecologico (ne parla Jared Diamond nel suo famoso libro intitolato Collasso). A ben vedere non ci può stupire che una forte apertura sul resto del mondo di una realtà del genere rischi di scardinare anche parti profonde della sua tradizione. In particolare, il fenomeno in questione viene chiamato "minoritarizzazione linguistica", e avviene quando una lingua di maggioranza in un certo contesto diventa di minoranza. L'islandese, lingua di maggioranza in Islanda, diventa di minoranza online, e così perde terreno anche nelle interazioni di persona sul territorio. Va affermato con forza: ogni lingua è una ricchezza da salvaguardare perché custode di una forma della mente umana. E per aver cura della lingua è necessario aver cura della comunità che la parla, e del suo prestigio culturale, e della sua forza economica: è molto difficile e si deve partire da molto lontano. Ma niente toni apocalittici, non stanno arrivando gli Unni.

Il nostro successo come specie riposa in gran parte sulla capacità linguistica: noi, a differenza di quanto sapessero fare i nostri cugini homo e qualunque altro animale sulla terra, sappiamo parlare e coordinarci in grandi gruppi per compiere azioni complesse. Così abbiamo prevalso: chi sa concertare un gruppo di dieci è debole e ha poche prospettive davanti a chi sa concertare un gruppo di diecimila. Se col mezzo di una lingua straniera si riesce a partecipare dell'esperienza e del sapere di miliardi di nostri conspecifici, trascurare una tradizione che non permette altrettanto non è un disadattamento che si può condannare. Qualcuno ricorderà quel famoso discorso di Umberto Eco, L'italiano di domani, in cui cita l'affermazione provocatoria di Leo Longanesi che "non si può essere un grande poeta bulgaro", e tira le fila della riflessione su questa affermazione così:

Ora, immaginiamo un piccolo Paese dalla lingua impervia e dalla scrittura diversa da quella di tutti gli altri popoli, che avesse subìto secoli di dominazione straniera, che per secoli non fosse stato mai visitato da altre genti e i cui abitanti non fossero mai andati a conoscere altri Paesi. Ecco un Paese tagliato fuori del gran vento del mondo. Non so se questo poteva impedire che tra questa gente nascesse un grande poeta, ma certamente l’universo di questo poeta sarebbe stato più circoscritto di quello di Shakespeare o di Goethe.

Un giovane che sceglie il gran vento del mondo sopra le saghe periferiche dei suoi avi non ci può stupire. Ma allora, che fare? Quando arriva il vento di internet, abbandonare la ricchezza delle piccole navi, della loro esperienza secolare, della loro arte, per rifugiarsi su una dozzina di arche linguistiche in cui si può parlare con un sacco di persone più interessanti usando tecnologie nuove e strabilianti? Abbracciare la bassa diversità come un valore? O cercare, con sforzo grande e preciso, di rappresentare nella galassia digitale la diversità delle lingue esistenti salvando capra e cavoli?

La situazione appare particolarmente chiara e urgente in Europa: secondo le ricerche della META (Multilingual Europe Technology Alliance), il supporto digitale per 21 delle 30 lingue europee considerate è “inesistente” o “debole”, tanto da far loro correre il rischio di "estinzione digitale": non solo lingue come l'islandese e il maltese, ma anche il greco, l'ungherese, il basco, il bulgaro (!), sono gravemente svantaggiate (in concreto, su fronti quali le traduzioni automatiche, l'interazione vocale, la disponibilità di risorse in lingua). Olandese, francese, tedesco, italiano e spagnolo hanno invece un "supporto modesto". Se ne occupa anche "The Digital Language Diversity Project" sul fronte delle lingue regionali e minoritarie: molto interessante, per noi, la relazione sulla lingua sarda.

Ora, nella definizione attagliata a questo caso di "minoritarizzazione linguistica" che si trova riportata dai linguisti intervenuti sulla questione islandese si trova forse un tratto del problema che accenna a una soluzione: "quando una lingua di maggioranza nel mondo reale diventa di minoranza nel mondo digitale". Negli ultimi anni abbiamo assistito a un sempre maggiore accorciamento delle distanze fra mondo virtuale e mondo reale, che a ben vedere sono lo stesso mondo: siamo sempre noi. La lotta a bullismo, persecuzioni, truffe che dapprima se condotti online spiazzavano, si è fatta anfibia ed esperta; manifesti come Parole Ostili mirano a recuperare, nei comportamenti, lo scollamento fra identità fisica e identità digitale. Rivettare l'esperienza fisica con quella virtuale diventa essenziale anche per evitare che una lingua maggioritaria diventi minoritaria online: minore è lo scarto d'esperienza, minore la necessità di un gergo (se non una lingua) differente.
Se poi una lingua prevarrà su un'altra, come mille volte è già accaduto e mille volte accadrà, lo vedremo, è fisiologico non c'è poi da preoccuparsi: piuttosto, è necessario prendersi cura di chi oggi, vivo, pensa in una lingua e vuole usarla per soffiare nel gran vento del mondo, portando la sua cifra irriducibile. Magari la soluzione verrà da progetti come BabelNet, che integra automaticamente corpi linguistici enciclopedici di dimensioni gargantuesche (si parla di 284 lingue e dialetti), permettendo in un clic traduzioni impensate, come dal lombardo al mongolo. Sembra un'impresa più semplice e rapida di aspettare che i vecchi che non si vogliono adattare muoiano e intanto eradicare povertà e ignoranza a livello globale in modo che tutti possano esercitare i propri diritti digitali.

E l'italiano? Per quanto sia di moda gridare all'invasore, non solo sappiamo l'inglese troppo male perché possa scalzarlo, ma in effetti l'italiano è una lingua dominante, sicura, prestigiosa, si ripete sia la quarta più studiata al mondo. C'è molto da migliorare per quanto riguarda il supporto digitale: avete mai provato a fare una domanda all'assistente di Google in italiano e in inglese? Nel secondo caso è molto più eloquente e circostanziato, nel rispondere. E c'è molto da migliorare nei campi dell'economia, dell'industria, dell'arte, dell'innovazione, su cui il prestigio linguistico fiorisce. Ma la nostra è proprio la posizione in cui è necessario impegnarsi per la salvaguardia delle lingue minori: magari, come i dialetti, saranno sempre un po' limitate per tradurre Heidegger (un esempio che faceva Eco in quel discorso), ma sono depositare di altri valori. E se ci impegniamo perché in un habitat la creatura fragile prosperi, figuriamoci quale sarà il benessere di quella dominante.

127 CONDIVISIONI
Immagine
Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
Attiva le notifiche per ricevere gli aggiornamenti su
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views