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Perché le accuse di Alessia Pifferi al compagno non sono un tentativo di depistare i giudici

Alessia Pifferi accusa il compagno di essere il responsabile dell’abbandono della figlia Diana come forma di autodifesa psicologica che prende il nome di dissonanza cognitiva.
A cura di Anna Vagli
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Alessia Pifferi in Tribunale nell'udienza del 19 settembre 2023
Alessia Pifferi in Tribunale nell'udienza del 19 settembre 2023
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Quando una madre uccide sua figlia con le modalità di Alessia Pifferi si confronta con una realtà che va contro ogni valore, ma soprattutto contro quell’istinto materno come tradizionalmente celebrato e riconosciuto. Ed è proprio in simile contesto che si inserisce quella che in gergo tecnico viene definita dissonanza cognitiva, che altro non è che un intricato rituale di autodifesa psicologica. Un rituale che ha fatto proprio la madre di Diana dinnanzi ai giudici della Corte d’Assise di Milano.

Si tratta di un meccanismo che si manifesta come un conflitto interno insopportabile tra ciò che Alessia crede di essere stata, ovvero una madre amorevole e protettiva, e ciò di cui ci si è resa responsabile. Questo conflitto scuote le fondamenta dell'identità di chi sperimenta il meccanismo stesso. E quindi anche della madre di Diana.

Quest’ultima, lo ricordiamo, è accusata di aver lasciato morire di stenti sua figlia di soli diciotto mesi. La bambina era stata trovata morta il 21 luglio 2022 nell’appartamento della donna a Ponte Lambro, dopo che la stessa si era assentata a partire dal 14 luglio per raggiungere il compagno a Leffe, in provincia di Bergamo. La donna è stata rinviata a giudizio con un capo di imputazione pesantissimo: omicidio volontario pluriaggravato.

Ieri mattina Alessia Pifferi ha parlato per la prima volta in aula dall’inizio del processo. E lo ha fatto anche rivolgendo tutta una serie di accuse all’ex compagno. “Era lui a dirmi che potevo lasciare da sola la bambina mentre andavamo a fare la spesa, l’ho capito dopo aver parlato con le psicologhe”. Ha poi ulteriormente affondato il colpo affermando: “Volevo tornare dalla bambina ma avevo paura della reazione del mio compagno, lui diceva che non era il mio tassista”.

Va precisato che l’uomo ha sempre dichiarato di aver saputo che lo avrebbe raggiunto da sola e che la bambina era in compagnia della baby-sitter.

Dunque, perché Pifferi avrebbe fatto queste dichiarazioni solamente adesso? Alla base di queste ci sarebbe proprio il rituale della dissonanza cognitiva. Un meccanismo che è servito e serve alla donna per cercare una via d'uscita rispetto alla realtà inaccettabile che ha creato. In concreto, quindi, incolpare ingiustamente l’uomo è un modo per attenuare e ridurre la tensione psicologica. Alessia Pifferi mente, innanzitutto, a sé stessa. Mente per poter sopportare il peso insostenibile della colpa e per preservare un'immagine di sé stessa come madre amorosa. Non è un caso che più volte abbia dichiarato anche questa mattina di essere stata una madre accuditiva.

Le avevo lasciato due biberon di latte, pensavo bastassero. Mia figlia non è mai stata un peso, mi manca tanto”. E ancora. “Ho sempre accudito mia figlia come fa una mamma esemplare. Di professione ho sempre fatto la mamma. Le facevo tutto”.

Come si spiega, quindi, questo cambio di rotta della Pifferi proprio adesso? Del resto, è impossibile dimenticare quando, durante l’interrogatorio di convalida davanti al giudice per le indagini preliminari, aveva dichiarato: “Sapevo che sarebbe potuto accadere”. Una frase che aveva fatto capire come la donna fosse pienamente cosciente che abbandonare una bambina di diciotto mesi in quelle condizioni avrebbe potuto tranquillamente condurla alla morte.

Ebbene, le sue menzogne ed il cambio direzionali non sono tanto finalizzati ad ottenere benefici in termini di pena. Ma diventano il paraurti perfetto tra quanto commesso con il suo atteggiamento e l'identità che Alessia cerca disperatamente di mantenere intatta.

Un autoconvincimento finalizzato a sé stesso?

Proprio l’identità e l’immagine che la donna ha tentato di conservare intatta spiega il perché non si tratta solamente di un atto di autodifesa cosiddetto interno. Le sue bugie si trasformano infatti in una narrazione elaborata e finalizzata all’autoconservazione emotiva. Un’autoconservazione che però necessita anche della consapevolezza di aver persuaso gli altri in ordine alla veridicità della sua versione. In verità, paradossalmente, se in apparenza quelle menzogne offrono temporaneamente un rifugio dalla dura realtà, le stesse intossicano ulteriormente la sua visione. In soldoni, questo circolo vizioso e autotutelativo rischia di diventare per la mamma di Diana una prigione mentale. Rimanendo così sempre più intrappolata nella sua stessa falsa narrativa.

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Dottoressa Anna Vagli, giurista, criminologa forense, giornalista- pubblicista, esperta in psicologia investigativa, sopralluogo tecnico sulla scena del crimine e criminal profiling. Certificata come esperta in neuroscienze applicate presso l’Harvard University. Direttore scientifico master in criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica
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