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A 5 anni ha vissuto da solo per 3 anni nel bosco: “Scappavo da mio nonno che ha ucciso mia madre”

Manuel Bragonzi è un figlio adottato, ma prima ancora è figlio del bosco. Lì, dopo aver visto il nonno uccidere sua madre, è scappato per fuggire alla violenza della povertà nel Cile di Pinochet. Oggi vive a Milano e aiuta i ragazzi come lui.
A cura di Chiara Daffini
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Manuel Bragonzi
Manuel Bragonzi

"Sono nato in un villaggio dell'entroterra meridionale del Cile – racconta a Fanpage.it Manuel Bragonzi, 45 anni -. Eravamo nel pieno della dittatura di Pinochet e dalle mie parte mangiare ogni giorno era davvero difficile, per questo la gente si rifugiava nell'alcol".

"Ricordo l'intero villaggio alcolizzato – continua – e soprattutto violento. Sembrava che la gente non avesse uno scopo nella vita. Quando avevo 3 anni vidi mio nonno uccidere mia madre, prendendola a calci. Lei era incinta".

È proprio il nonno di Manuel, un contadino cileno, a prendersi inizialmente carico di quel bimbo che non aveva mai avuto un padre e da quel momento era orfano anche della madre.

L'incendio e la fuga nel bosco

"Furono due anni terribili – dice Manuel -, il nonno era sempre ubriaco e rabbioso, mi svegliava frustandomi, non mangiavo e venivo spesso chiuso in una stanza".

Accade così anche la sera in cui Manuel, giocando con una scatola di fiammiferi, dà fuoco a una camicia e provoca un incendio che si espande in tutto il villaggio.

"Quella notte stavano festeggiando ed erano tutti ubriachi – ricorda -, per questo fu facile scappare e allontanarmi dal villaggio. Vidi le fiamme che facevano contrasto con il buio, ormai ero lontano, nel bosco. Lì mi sentivo al sicuro e decisi di rimanerci".

Essere parte della natura

Manuel rimane nel bosco per tre anni. Difficile pensare come un bambino possa sopravvivere così: "A quei tempi in Cile non era così raro – spiega a Fanpage.it -, bimbi e adolescenti venivano lasciati a sé stessi, perciò crescevano in fretta".

"Mangiavo le more che raccoglievo, le mele e le angurie rubate ai contadini – continua -, poi, più avanti, imparai a cacciare i passeri con una fionda. Di nascosto andavo al villaggio e li cuocevo sulle pietre ancora calde dove avevano cucinato gli indigeni".

"Penso che quel periodo sia stato la mia salvezza, anche se avevo 5 anni sapevo che non volevo restare nella violenza, destino che sembrava per me segnato nel villaggio, visto che da ‘figlio di nessuno' ero considerato quello che tutti potevano maltrattare. Nel bosco mi sono sentito parte di qualcosa di bello".

L'arrivo dei carabineros e l'orfanotrofio

Un giorno, mentre gioca tra gli alberi nel bosco, Manuel viene raggiunto da una pattuglia di carabineros (carabinieri cileni). "Erano vestiti in un modo stranissimo per me – ricorda – e soprattutto erano a bordo di un'automobile, io non ne avevo mai vista una prima di allora".

Dopo averlo portato al villaggio e fatto riconoscere dal nonno, gli agenti lo affidano a un orfanotrofio, dove il piccolo resta qualche mese, fino ai 9 anni.

"Una mattina – racconta Manuel – una suora venne a prendermi e mi portò nello studio della superiora, dove mi aspettavano una donna e un uomo dall'aria tesa. La superiora mi disse che venivano da un Paese chiamato Italia e che avrebbero voluto essere i miei nuovi genitori".

Il primo abbraccio

"Mi chiese se ero d'accordo e risposi di sì, così quell'uomo e quella donna si sciolsero di sollievo e vennero da me, mi abbracciarono, baciarono, accarezzarono… Fecero tutti quei gesti – ricorda commuovendosi – per me del tutto inusuali. Non avevo mai ricevuto un abbraccio e le uniche mani che si erano avvicinate a me, fino ad allora, erano quelle di chi mi picchiava".

Manuel approda così in Italia e, pur con molte difficoltà, riesce ad ambientarsi, tra la meraviglia per un mondo tutto nuovo e lo spaesamento dato dal confronto con i suoi coetanei, cresciuti in modo molto diverso da lui.

"Da quel giorno – dice sorridendo – è come se fossi rinato grande, sono diventato finalmente figlio".

Un'associazione per i figli adottati

Con gli anni, e divenuto uomo, Manuel ha affrontato e superato i suoi traumi infantili, mettendo la propria esperienza al servizio di altre ragazze e ragazzi, bambine e bambini che come lui sono stati adottati. Oggi presiede l'Associazione nazionale figli adottati (Anfad) che si occupa proprio di loro.

"Ho creato una rete di professionisti – spiega Manuel -, con psicologi, educatori, avvocati, per seguire da tutti i punti di vista le persone che ne sentono il bisogno. A differenza delle altre associazioni, che riuniscono i genitori adottivi, noi operiamo e parliamo dal punto di vista dei figli adottati".

Le ragazze e i ragazzi di Anfad si ritrovano anche in gruppo per condividere le loro esperienze ed elaborarle. "Da questo processo – conclude Manuel -, molti chiedono l'aiuto di esperti per superare i loro traumi ed è questo l'obiettivo dell'associazione: non farli sentire soli e incompresi e metterli nelle mani di personale specializzato"

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