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Lo Stato nega il vitalizio a ebraico perseguitato dal fascismo: “Troppo piccolo per capire”

Nessun assegno di benemerenza è dovuto per le persecuzioni razziali che dovette subire durante l’occupazione nazi-fascista nel 1944 perché all’epoca dei fatti era troppo piccolo. Questa la motivazione con cui lo Stato ha negato l’assegno di benemerenza al signor M., livornese di 74 anni di religione ebraica che trascorse i primi giorni di vita nei sotterraneo dell’ospedale di Volterra nascondendosi insieme alla madre per sottrarsi ai rastrellamenti dei fascisti.
A cura di Charlotte Matteini
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Nessun assegno di risarcimento è dovuto per le persecuzioni razziali che dovette subire durante l'occupazione nazi-fascista nel 1944 perché all'epoca dei fatti era troppo piccolo. Questa la motivazione con cui lo Stato ha negato l'assegno di benemerenza al signor M., livornese di 74 anni di religione ebraica che trascorse i primi giorni di vita nei sotterraneo dell'ospedale di Volterra nascondendosi insieme alla madre per sottrarsi ai rastrellamenti dei fascisti.

Come spiega Il Fatto Quotidiano, all'uomo è stato negato l'assegno di benemerenza previsto per i pensionati che un tempo hanno subito le persecuzioni fasciste: "Mia madre mi teneva una mano sulla bocca perché non piangessi, è una vergogna che si arrivi a dire che mi è mancato il tempo per essere in pericolo. Sì, hanno ragione: mi è mancato il tempo per avere una lapide. Ma di quanto tempo aveva bisogno un delatore per guadagnare le 250 lire con le quali veniva ricompensato chi denunciava un ebreo? Leggo i titoli dei giornali, viene scritto ‘Niente assegno all’ebreo in fuga con i genitori’. Ma io non sono un ebreo in fuga, sono un cittadino italiano di religione ebraica che è stato perseguitato dallo Stato italiano”, racconta M.

All'epoca dei fatti, M. era un neonato, venuto alla luce il 28 giugno del 1944 e costretto a passare i suoi primi giorni di vita nei sotterranei dell’ospedale di Volterra, dove la madre si era nascosta per sottrarsi alle persecuzioni dei fascisti e ai rastrellamenti che in quei mesi precedevano spesso le deportazioni nei campi di concentramento italiani e poi nei campi di sterminio tedeschi. Per la magistratura italiana, però, M. non ha diritto ad alcun assegno di benemerenza in quanto all'epoca dei fatti era troppo piccolo per essere considerato perseguitato, avendo vissuto la persecuzione per soli 10 giorni, dal 28 giugno all'8 luglio: "La nascita in quei sotterranei non integra la nozione di ‘atti persecutori‘”, hanno scritto i giudici della Corte dei Conti di Roma accogliendo il ricorso del ministero dell’Economia e ribaltando la decisione di primo grado dei magistrati contabili di Firenze.

M. non si rassegna e continua la sua battaglia “non per i soldi, ma per condannare questa decisione dello Stato italiano che non riguarda solo me, ma anche altri italiani di religione ebraica”.  “La Commissione dice due cose: la mia età non era tale da comprendere quello che mi succedeva intorno, ergo, se al mio posto ci fosse stato un malato di Alzheimer non in grado di comprendere quello che avveniva, la Commissione avrebbe detto che non era stato perseguitato? E poiché la Commissione non può più usare lo spazio, perché è stato occupato dalle testimonianze dirette delle persone che hanno seguito la persecuzione dei miei genitori, tira fuori il concetto di tempo”.

“Mi piacerebbe chiedere ai giudici che hanno detto che non sono stato perseguitato se conoscono la storia della persecuzione ebraica in Italia. Sarei anche interessato a conoscere lo spirito del funzionario del ministero che ha messo in evidenza i due fattori, tempo e età. Avrei piacere che si chiedesse al presidente del Consiglio Giuseppe Conte se si sente ben rappresentato da quel funzionario. Quello che a me preme è la condanna dello Stato italiano. La condanna più forte possibile per quello che ha combinato. Per quello che ha fatto soffrire e per le nefandezze con cui ha fatto uccidere le persone e ha preso i loro beni. Leggo i titoli del giornali, viene scritto ‘Niente assegno all’ebreo in fuga con i genitori’. Ma io non sono un ebreo in fuga, sono un cittadino italiano di religione ebraica che è stato perseguitato dallo Stato italiano”, conclude M.

A Vivo d’Orcia qualcuno se lo ricorda ancora: “Il ricordo della mia famiglia a Vivo D’Orcia è ancora presente nella memoria dei cittadini. E’ ancora presente questo livornese che spalava la neve senza i vestiti giusti – la voce di M. si rompe – Si ricordano perfettamente di mia sorella che si domandava perché non c’era da mangiare o perché faceva freddo”. E’ grazie alla memoria di alcuni di quei cittadini che si ricordavano di lei che la sorella di M. – lei sì – ottiene l’assegno di benemerenza, dopo un primo rifiuto della commissione del ministero.

Ma a Vivo d’Orcia la famiglia non trova la pace: solo una tregua, breve. Nel 1944 il podestà del paese li avvisa di un rastrellamento imminente. Il padre di M. che si preoccupa di far tornare la sua famiglia “invisibile“, ma anche per gli abitanti del paese che non hanno denunciato la presenza della famiglia ebrea e potrebbero essere passati per le armi come traditori. Così ricomincia la fuga: ancora fantasmi in cerca di un posto dove nessuno li conosca. Questa volta c’è anche lui, M.: “La mia arca di salvezza sono state le gambe di mia madre – sottolinea – Ha camminato, camminato e camminato. Dieci giorni in un sotterraneo sono pochi ma i nove mesi che questo bambino ha passato nella pancia non meritano attenzione? La bufera che si è abbattuta sulla mia famiglia, il desiderio di salvare questo bambino”.

Le gambe della mamma, al termine dell’ottavo mese di gravidanza, camminano per 116 chilometri e arrivano a Volterra. La sorella di M., che ha 5 anni, viene lasciata a una famiglia di Canneto, un paese vicino: “Come sfamo due figlie, ne posso sfamare tre” dice la signora che la accoglie in casa. Da lì l’ultima parte del viaggio fino all’ospedale di Volterra: “Mio padre ha accompagnato mia madre in ospedale spacciandosi per il padre di mia madre. Poi si è unito ai partigiani” racconta M. La mamma, invece, è terrorizzata, teme di poter essere riconosciuta, ha paura perfino di un monaco: “Non era sicura di averlo convinto di essere solo non religiosa. Per questo scappò nei sotterranei dell’ospedale”. E’ qui che M. trascorre i primi giorni della sua vita. Sotto terra. Nascosto in uno scantinato. Fuori, il caos: è l’ultima resistenza per la liberazione.

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