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Lavoro, salari, povertà: ecco perché i giovani sono disperati in Italia

Mentre la disoccupazione fra i giovani tocca il 40% , si rompe anche il meccanismo della mobilità sociale. E la ricchezza e il lavoro si sono trasferiti dai giovani agli anziani.
A cura di Michele Azzu
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Un paese immobile. In cui non serve studiare, fare i master all’estero, imparare le lingue. In cui non bastano gli sforzi, perché il successo nella ricerca del lavoro e di una posizione dignitosa rispetto ai propri titoli e alle proprie capacità, è determinato dalla posizione della famiglia di provenienza. E la mobilità sociale è solo il ricordo di un’epoca che non esiste più.

Le cronache degli ultimi giorni parlano di una situazione ormai divenuta invivibile per i giovani in Italia, dai cosiddetti “Neet” che non studiano ma non cercano neanche lavoro, a chi nonostante gli sforzi e gli studi non riesce a liberarsi dalla trappola dei lavoretti precari. E quindi dall’impossibilità di costruirsi un futuro, una casa, una famiglia.

All’incubo che vivono i giovani, e alla fine della promessa per cui agli sforzi e agli studi sarebbero corrisposte altrettante soddisfazioni, c’è l’altro lato della medaglia generazionale: mentre i giovani si impoverivano in maniera importante a seguito della globalizzazione e della crisi, le generazioni più anziane (over 50, ma soprattutto over 60) aumentavano il proprio benessere.

Così mentre i dati degli ultimi giorni riportano il tasso della disoccupazione giovanile in Italia sopra il 40%, i rapporti e i numeri degli ultimi mesi danno un quadro inequivocabile del lavoro e della ricchezza nel nostro paese: gli anziani hanno avuto tanto e i giovani sono sempre più poveri e privi di opportunità. E negli ultimi vent’anni la ricchezza si è trasferita, dai giovani agli over 50.

Non si parla solo di risparmi, o del conteggio delle assunzioni dovute agli incentivi di Renzi, ma anche di salari: il rapporto realizzato dalla società di ricerca Jobpricing per Il Sole 24 Ore spiega: “Un professionista dai 25 ai 34 anni può aspettarsi una retribuzione lorda di 29.093 l'anno: è il 34,6% in meno di chi ha più di 55 anni”.

E per quanto riguarda l’occupazione? Come sappiamo, nel 2015 e 2016 l’occupazione è aumentata solo fra gli over 50, e sempre fra questa fascia di età va la maggior quota di contratti indeterminati, mentre fra i giovani spopolano voucher e contratti a tempo. E ai dati di oggi vanno a sommarsi le prospettive future, nettamente a sfavore di chi oggi ha meno di 35 anni.

L’Italia oggi è un paese fermo e senza futuro, in cui il patto sociale fra generazioni si è ribaltato: mentre 15 anni fa la maggior quota di occupati era costituita dai giovani, ora il primato spetta agli over 50. Chi dovrebbe costruirsi un futuro e mettere a frutto i propri studi si ritrova nell’impossibilità di poter trovare un’occupazione, perfino al di sotto delle proprie aspettattive e capacità.

E così, succede che solo i privilegiati riescano a andare avanti, coloro che partono già con case di proprietà e aiuti finanziari da parte della famiglia. E possono permettersi di aspettare un’occupazione migliore, e di frequentare i percorsi formativi necessari – anche fino alla soglia dei 30 anni – per poter rientrare nelle professioni che ancora permettono un guadagno dignitoso.

Mentre gli altri si trovano intrappolati nella precarietà. E mentre i giovani laureati emigrano a colpi di centomila cervelli in fuga all’anno –  e per cui il ministro del lavoro Giuliano Poletti dice che alcuni di questi: "è meglio non averli tra i piedi". Ma come siamo arrivati a vivere in un paese in cui i giovani sono ormai prigionieri della disperazione? Sbeffeggiati perfino dai ministri che sono pagati per aiutarli?

A gennaio la quota di disoccupati fra i giovani è salita al 40.1%, il livello più alto dal giugno del 2015. Ma anche se negli ultimi mesi si era arrivati a toccare quota 36% questa percentuale oscilla attorno al 40% da anni. Le riforme del lavoro di Renzi – Jobs Act, incentivi alle assunzioni, Garanzia Giovani e riforma dei contratti a tempo – non sono riuscite ad influire minimamente sulle categorie giovani (che infatti allo scorso referendum di ottobre sono stati decisivi nel voto contrario al governo).

Alla lettura dei dati dopo due anni di riforma, emerge chiaramente come solo i lavoratori maturi abbiano beneficiato delle nuove assunzioni fisse generate dagli incentivi di Renzi del 2015. Ma chi era precario, e cioè soprattutto i giovani, è diventato ancora più precario magari passando a lavorare a voucher, per cui negli ultimi 2 anni si è registrato un vero e proprio “boom” – e per cui ora si attende il referendum chiesto dalla Cgil per decretarne la cancellazione.

Durante tutto il 2016 gli occupati over 50 sono cresciuti di 453mila unità, mentre diminuivano in tutte le altre fasce di età: 88mila posti in meno fra 25-34enni, 160mila in meno fra i 25-49enni. Negli ultimi 10 anni, insomma, e in maniera evidente negli ultimi 2 anni di Renzi, è successo che i giovani che “costano pochissimo” si sono trovati addirittura con meno opportunità di trovare un lavoro, e tantomeno stabile.

Si diceva, i giovani costano inoltre molto meno dei propri colleghi più anziani – e questo anche a scapito di maggiori titoli di studio. Il recente studio condotto dalla società di ricerca Jobpricing per Il Sole 24 Ore ha preso in esame i giovani professionisti di una città competitiva come Milano: “I giovani assunti guadagnano il 45.4% in meno rispetto ai colleghi sopra i 55 anni di età”, riporta lo studio. Secondo Jobpricing in tutta Italia lo scarto di retribuzioni fra giovani ed anziani viaggia fra minimi del 30% e picchi del 45%.

Tutto questo si traduce, e in parte si accompagna a un già precedente impoverimento delle generazioni giovani negli ultimi 20 anni. Secondo le stime del Censis rispetto a 25 anni fa i giovani hanno perso il 26.5% del reddito. Nello stesso periodo per gli over 65 il reddito aumentava del 24.3%. C’è stato, insomma, un trasferimento di ricchezza dai giovani agli anziani. Che è difficile ritrovare in indici di ricchezza come il coefficiente di Gini (misura della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza) perché si basa sul reddito dei nuclei familiari. Ma dentro le stesse famiglie, nonni e genitori coprono la povertà di figli e nipoti.

Povertà che viene fortografata anche dall’ultimo rapporto della Caritas “I vasi comunicanti”, che già nel titolo ha voluto mettere in evidenza il passaggio di reddito, lavoro e ricchezza dai giovani agli anziani: “Oggi i dati Istat descrivono una povertà che potrebbe definirsi inversamente proporzionale all’età, con la prima che tende a diminuire all’aumentare di quest’ultima”, spiega il rapporto. Secondo la Caritas, il 46.6% dei quasi 5 milioni di poveri in Italia è costituito da under 35.

Ma se la diseguaglianza fra generazioni, e il vaso comunicante che in questi anni ha portato redditi, ricchezza e posti di lavoro dai giovani agli anziani, è un grosso problema per i giovani italiani disperati, tutto questo si traduce in un problema ancora peggiore: l’assenza di mobilità sociale per cui solo i figli dei ricchi riescono a ottenere impieghi dignitosi e dunque benessere. Alla presentazione dell’ultimo rapporto annuale dell’Istat, infatti, il presidente Giorgio Alleva aveva spiegato come: “La famiglia sia diventata un ostacolo alla mobilità sociale”.

In Italia chi parte da uno status di famiglia alto, e ha già a partire dagli studi una casa di proprietà, un reddito passato dai genitori, la possibilità di studiare senza ricorrere a lavoretti e poter protrarre fino ai tardi venti anni gli studi, magari ricorrendo a carissimi percorsi di studio all’estero… ha un vantaggio di gran lunga più alto che negli altri paesi europei rispetto ai propri coetanei (fatta eccezione per il Regno Unito, dove però questo vantaggio rimanda a differenze di classe presenti da secoli nella società).

E chi non è nato privilegiato? Sta a casa dei genitori: il rapporto annuale dell’Istat riporta che il 62.5% dei giovani fino ai 34 anni vive ancora a casa dei genitori, e il 70% dei 25-29enni. La media dell’UE, già alta perché il problema della disoccupazione giovanile esiste in tutta Europa, è comunque inferiore, al 48.1%.

E torniamo al dramma dei giovani che partono all’estero perché nel nostro paese non ce la fanno più: nei dieci anni fra il 2006 e il 2016 la quota di italiani che vive all’estero è aumentata del 54.9%. Caratteristica distintiva fra gli emigrati proprio il titolo di studio: 9 su 10 ha una laurea secondo le stime del Censis. Fra questi, l’89% riesce a trovare un contratto di lavoro adeguato al proprio titolo di studio, e nel 72% dei casi con un impiego permanente.

Insomma, da qualunque parte la si guardi la situazione dei giovanissimi e dei giovani adulti fino ai 35 anni è buia in Italia. I salari sono troppo bassi, il lavoro troppo poco e precario, e il rischio povertà troppo alto. C’è l’impossibilità a cambiare la propria situazione, perché si è rotto il meccanismo della mobilità sociale, per cui ce la fa solo chi parte da una situazione familiare di vantaggio. E molto di questo è dovuto, o reso ancora più difficile, da diseguaglianze intergenerazionali che fanno da “tappo” alle opportunità dei giovani.

Le riforme sul lavoro fatte da Renzi e Giuliano Poletti, ancora ministro del lavoro nel governo Gentiloni, non hanno cambiato nulla per i giovani del paese, e anzi hanno peggiorato questo divario di ricchezza fra generazioni, e reso più aspra la precarietà per mezzo dei voucher e di contratti a tempo riformati. Per questo, oggi la situazione dei giovani è ancora più disperata. Perché a fronte di una situazione difficilissima c’è anche l’impossibilità a cambiare qualcosa.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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