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Perché alcune persone si ammalano di Covid e altre no

Una risposta arriva dalle ricerche condotte prima dell’arrivo dei vaccini e che hanno identificato diversi fenomeni legati alla risposta immunitaria che protegge dall’infezione.
A cura di Valeria Aiello
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Perché alcune persone si ammalano di Covid e altre no? In questi giorni, se consideriamo che parte della popolazione possiede un certo livello di immunità in seguito alla vaccinazione o una precedente infezione, non contrarre il Covid trova una rapida spiegazione nel fatto che la protezione può derivare dallo scudo immunitario acquisito contro Sars-Cov-2. Ma ricerche condotte prima che i vaccini fossero disponibili hanno messo in luce diversi fenomeni legati alla risposta immunitaria, per cui è possibile che persone mai esposte al virus e non vaccinate siano comunque protette grazie a un’immunità preesistente.

Perché alcune persone sono immuni al Covid e altre no

Ne parlavamo anche qui, riportando i risultati di uno studio pubblicato dall’Imperial College di Londra, che hanno messo in evidenza un fenomeno chiamato immunità cross-reattiva, dovuto alla risposta immunitaria nei confronti di agenti virali simili a Sars-Cov-2, come potrebbero essere i coronavirus responsabili del comune raffreddore stagionale, come HCoV-OC43 e HCoV-HKU1. Altri studi suggeriscono che è anche possibile che l’infezione venga eliminata durante le prime fasi, prima che la carica virale raggiunga livelli sufficientemente alti da determinare la comparsa di sintomi.

Ad esempio, durante la prima ondata della pandemia, il team di ricerca guidato dal professor Leo Swadling dell’University College di Londra ha dettagliatamente monitorato gli operatori sanitari che erano regolarmente esposto a pazienti infetti, ma che non sono mai risultati positivi né hanno sviluppato anticorpi contro Sars-Cov-2. I loro esami del sangue hanno però rivelato che circa il 15% aveva cellule T della memoria cross-reattive, un tipo di linfociti in grado di ricordare il patogeno già incontrato ma anche di riconoscere più ceppi di uno stesso patogeno, oltre ad altri marcatori di infezione virale. È dunque possibile che i linfociti T della memoria dovuti a precedenti infezioni da coronavirus stagionali abbiano reagito in modo incrociato con il nuovo coronavirus e abbiano protetto dal Covid.

Questi virus potrebbero però non essere l’unica fonte di risposte immunitarie cross-protettive, come indicato dalla professoressa Cecilia Söderberg-Nauclér, immunologa del Karolinska Institute di Stoccolma, che ha iniziato a indagare su questa possibilità, dopo che la Svezia ha evitato di essere sopraffatta dai casi di Covid durante la prima ondata della pandemia, nonostante il suo approccio leggero alle restrizioni. I modelli matematici sviluppati dal suo collega, Marcus Carlsson dell’Università di Lund, hanno mostrato che l’incidenza dei casi di Covid in Svezia poteva essere spiegata solo in presenza di un’ampia percentuale di persone con una sorta di immunità protettiva, per cui il team di ricercatori ha esaminato i database di sequenze proteiche di virus esistenti, alla ricerca di piccoli segmenti (peptidi) simili a quelli del nuovo coronavirus, cui è probabile che gli anticorpi si leghino.

La ricerca ha portato all’identificazione di un peptide di sei amminoacidi in una proteina dell’influenza H1N1 che corrisponde a una parte cruciale della proteina Spike del coronavirus, suggerendo che le risposte immunitarie innescate dal virus dell’influenza H1N1 – che è stato responsabile dell’epidemia di influenza suina del 2009-10 – e forse dai ceppi successivi correlati, possono fornire alle persone una parziale, anche se non completa, protezione contro il Covid-19. Gli anticorpi contro questo peptide, in particolare, sono stati rilevati nel 68% dei donatori di sangue di Stoccolma, supportando la tesi, non ancora sottoposta a revisione  paritaria, di un’immunità parziale cross-protettiva.

Difetti genetici e Covid

Una piccola percentuale di persone potrebbe anche essere geneticamente resistente al Covid-19, come suggerito da un consorzio internazionale di ricercatori che sta ricercando persone che non hanno contratto l’infezione nonostante abbiano condiviso gli stessi spazi di casa, o addirittura dormito nello stesso letto di persone infette, nella speranza di identificare i geni protettivi. “Ad esempio, l’altro giorno stavo parlando con un’anziana signora dei Paesi Bassi, che si è presa cura di suo marito durante la prima ondata. Alla fine il marito è stato ricoverato in terapia intensiva, ma la donna ha trascorso la settimana prima a prendersi cura di lui, condividendo la stessa stanza senza mascherina – ha affermato il professor András Spaan della Rockefeller University di New York, che sta guidando la ricerca – . Non abbiamo ancora una spiegazione del motivo per cui non sia stata infettata”.

D’altra parte, è anche noto che alcuni rari fenomeni di resistenza alle infezioni esistono per altre malattie, tra cui HIV, malaria e norovirus. In questi casi, la presenza di un difetto genetico significa che alcune persone non hanno un recettore utilizzato dall’agente patogeno per entrare nelle cellule, quindi non possono essere infettate. “Potrebbe benissimo essere che, in alcuni individui, ci sia un tale difetto in un recettore utilizzato da Sars-CoV-2” ha aggiunto Spaan, spiegando che l’identificazione di tali geni potrebbe portare allo sviluppo di nuovi trattamenti anti Covid-19, allo stesso modo in cui l’identificazione dei difetti del recettore CCR5 nelle persone resistenti all’HIV ha portato a nuovi trattamenti dell’immunodeficienza acquisita.

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