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Cos’è e come funziona una centrale solare orbitale, il sogno dell’energia verde dallo spazio

In futuro lo spazio potrebbe essere costellato da enormi centrali solari orbitali, in grado di fornire energia verde e illimitata. Ecco cosa come funzionano.
A cura di Andrea Centini
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L'illustrazione di una ipotetica centrale solare orbitale. Credit: Wikipedia
L'illustrazione di una ipotetica centrale solare orbitale. Credit: Wikipedia
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Il mese scorso, come riportato dal Times, il governo del Regno Unito ha espresso interesse per la costruzione di una centrale solare orbitale, iniziando a valutare una proposta da 16 miliardi di sterline (19,2 miliardi di Euro) avanzata da un gruppo di ingegneri e investitori. Una centrale solare orbitale non è nient'altro che una centrale elettrica in grado di trasferire energia solare dallo spazio alla Terra, un “sogno” cullato sin dagli anni '70 del secolo scorso ma mai concretizzatosi a causa dei costi esorbitanti. Le dimensioni, il peso e il numero di lanci necessari hanno infatti un impatto enorme sul bilancio economico, determinando un investimento che potrebbe essere riassorbito solo dopo un lunghissimo tempo. Sussistono inoltre diversi svantaggi e problematiche ancora non risolte. Ciò nonostante sia gli Stati Uniti con lo Space Solar Power Project che la Cina col progetto della Stazione Bishan sono in prima linea per la costruzione di una centrale solare orbitale. In futuro, del resto, simili impianti spaziali potrebbero dare un contributo significativo all'agognato raggiungimento della neutralità carbonica (le emissioni zero nette), un traguardo fondamentale per salvare noi stessi, la biodiversità e gli equilibri del pianeta dal drammatico impatto dei cambiamenti climatici.

Ma come è fatta e come funziona una centrale solare orbitale? A spiegarlo nel dettaglio in un articolo pubblicato su The Conversation è la professoressa Jovana Radulovic, direttrice della Scuola di Ingegneria Meccanica e del Design presso l'Università di Portsmouth (Regno Unito). Una centrale di questo tipo è composta da tre componenti principali: un'enorme navicella con giganteschi pannelli solari per la raccolta dell'energia solare; un'antenna per convogliare verso la Terra l'energia delle celle solari sotto forma forma di microonde; un'immensa antenna terrestre (chiamata rectenna) per la “cattura” delle microonde e la conversione in energia elettrica, da inviare nella rete nazionale. Questo tipo di trasferimento è possibile grazie al lavoro dell'ingegnere Peter Glaser, che brevettò l'affascinante idea nel 1974.

Tra i vantaggi principali di un impianto di questo tipo vi è il fatto che l'energia solare viene raccolta 24 ore su 24 e quasi per 365 giorni all'anno (gli unici momenti di “blackout” si verificano durante gli equinozi e le eclissi solari). Nello spazio, infatti, il Sole è sempre presente, inoltre le celle solari non sono influenzate dagli eventi atmosferici che abbattono la capacità di generare corrente elettrica. Si tratta naturalmente di energia pulita, ma il numero di lanci per la costruzione dell'impianto possono avere un impatto molto significativo sull'ambiente.

In base al rapporto Frazer-Nash Consultancy che fa capo al progetto britannico da 16 miliardi di sterline, una centrale solare orbitale per essere considerata efficiente deve avere una navicella spaziale con un diametro di ben 1,7 chilometri e un peso di 2mila tonnellate, che è circa quattro volte quello della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), costruita nel corso di anni aggiungendo vari moduli. Considerando che per ogni chilogrammo di peso lanciato nello spazio si spendono in media circa 10mila dollari, tutto quel materiale si tradurrebbe in costi immensi. Fortunatamente SpaceX, la compagnia aerospaziale di Elon Musk, è al lavoro sulla navicella Starship che potrebbe abbattere questo costo fino a 13 dollari al kg con un carico utile di 150 tonnellate. Sfruttando questo veicolo spaziale la costruzione di una centrale solare orbitale diverrebbe molto più vantaggiosa. Anche l'utilizzo delle moderne e leggerissime celle solari potrebbe abbattere i costi del lancio, sebbene si aumenti quello dei materiali. La costruzione dell'impianto nello spazio, spiega la professoressa Radulovic, potrebbe essere operata da unità robotiche. Dal punto di vista ingegneristico è fattibile, ma è un progetto di portata mai sperimentata e dalle molteplici incognite.

La scienziata sottolinea che arriverebbe sulla Terra solo una frazione dell'energia accumulata dai pannelli solari, inoltre le celle solari costantemente esposte ai raggi e ai detriti spaziali potrebbero deteriorarsi molto più frequentemente che sulla Terra. Anche le dimensioni della rectenna non sono da sottovalutare; basti pensare che in base al progetto britannico si prevede una lunghezza di 13 chilometri e una larghezza di 6,7 chilometri. Non a caso si ritiene che il posto migliore dove collocarla sia in mare, al largo. Alcuni hanno anche dei dubbi sulla sicurezza dell'irraggiamento delle microonde proiettate dallo spazio, sulle quali serviranno studi approfonditi. Sono tutti punti interrogativi che andranno risolti al più presto, se si vorrà davvero vedere un impianto del genere nello spazio. Gli esperti stimano che le prime centrali solari orbitali potrebbero essere messe in funzione tra il 2035 e il 2040.

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