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Basta allevamenti intensivi: stanno sterminando gli animali selvatici con l’aviaria e altri patogeni

Gli scienziati spiegano che virus e batteri legati agli allevamenti intensivi stanno sterminando la fauna selvatica, per questo va rivista l’industria zootecnica.
A cura di Andrea Centini
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Gli allevamenti intensivi, oltre a essere luoghi di atroci sofferenze, privazioni e morte, rappresentano un volano per la diffusione di virus e batteri che stanno sterminando la fauna selvatica, già duramente colpita dai cambiamenti climatici, dalla distruzione degli habitat naturali e dall'inquinamento, tutti fattori antropogenici. Se l'industria zootecnica continuerà a usare gli animali con queste modalità disumane (o sarebbe meglio dire, fin troppo umane) ci sarà un gravissimo impatto sulla biodiversità, con il collasso delle popolazioni e il concreto rischio di estinzione per le specie minacciate. A lanciare l'allarme sui gravissimi rischi legati agli allevamenti intensivi sono stati i due scienziati Thijs Kuiken e Ruth Cromie, rispettivamente docente presso il Dipartimento di Viroscienza dell'Erasmus University Medical Center di Rotterdam (Paesi Bassi) e consigliera della Wildlife Health for the Convention on Migratory Species (Germania). I due esperti hanno pubblicato un editoriale ad hoc sull'autorevole rivista scientifica Science, nel quale non solo hanno sottolineato l'importanza di proteggere la fauna selvatica dagli allevamenti, ma anche snocciolato i dati sulle conseguenze drammatiche che già oggi sta comportando il nostro approccio avido, privo di pietà e rispetto verso gli altri esseri viventi.

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Il primo esempio riportato da Kuiken e Cromie è quello della moria di uccelli marini senza precedenti verificatasi questa estate in diversi Paesi europei (soprattutto Regno Unito e Francia), nell'America settentrionale e in Nord Africa, a causa della dirompente e continuativa diffusione dell'influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI). Migliaia di esemplari di specie protette come sulle bassane e sterne sono morti sull'isola di Rouzic, nella Riserva Naturale Nazionale Sept-Iles, con un crollo delle longeve popolazioni locali. Gli uccelli marini sono stati colpiti da una diffusione inaspettata del letale virus, in un periodo dell'anno – quello estivo – in cui non si era mai visto con una tale intensità. In precedenza, infatti, focolai significativi si erano registrati generalmente in autunno e in inverno. Questa variazione ha portato allo sterminio di un'intera generazione di pulcini e coppie riproduttive, con conseguenze catastrofiche sulla tenuta delle colonie.

Il virus dell'HPAI è originato proprio in un allevamento intensivo nel 1996, nello specifico in uno cinese di oche. Da allora si è diffuso agli animali selvatici, provocando ogni anno morie di milioni di animali, compresi quelli abbattuti negli allevamenti. In origine il virus dell'influenza aviaria a bassa patogenicità circolava normalmente negli uccelli selvatici, ma una volta finito negli allevamenti intensivi, dove un numero spropositato di esemplari vive a strettissimo contatto e in condizioni igieniche pietose, ha continuato a evolvere e mutare, fino a dar vita alla forma ad alta patogenicità. Il nuovo patogeno aggressivo si è riversato negli uccelli selvatici a partire dal 2005, come sottolineato dagli autori dell'editoriale, dando vita a un ciclo di stragi. “Quest'anno si è diffuso rapidamente agli uccelli marini riproduttori, in Canada, Francia, Norvegia, Sud Africa e Regno Unito. Per molte di queste specie longeve, già minacciate dalla perdita di habitat e dai cambiamenti climatici, la mortalità che ne deriverà avrà un grande impatto sulle loro popolazioni”, hanno affermato Kuiken e Cromie.

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Tutto questo accade per la domanda crescente di carne e prodotti di origine animale a buon mercato, che nell'arco di mezzo secolo ha portato a un incremento significativo del bestiame allevato, una “minaccia crescente di malattie infettive per la fauna selvatica”. Basti pensare che, a livello globale, in questo arco temporale il pollame è aumentato di 6,1 volte, passando da 5,71 a 35,07 miliardi di individui allevati. I suini sono aumentati di 1,7 volte, passando da 547,17 a 952,63 milioni di capi, mentre i bovini sono incrementati di 1,4 volte, da 1,08 a 1,53 miliardi di esemplari allevati. Molti di essi sono rinchiusi negli allevamenti intensivi, dove il benessere animale è totalmente schiacciato da dinamiche volte alla produttività e al profitto. Gli scienziati spiegano che questi allevamenti, legati gli uni agli altri dalle filiere commerciali, rappresentano bacini ideali in cui i patogeni possono emergere e diffondersi, fino a raggiungere la fauna selvatica. E non si parla solo di uccelli migratori, come specificato da Kuiken e Cromie. Nel 2016-2017, ad esempio, il virus peste-despetits-ruminants è passato dal bestiame alla saiga o antilope delle steppe (Saiga tatarica), che ha provocato la morte dell'80 percento degli esemplari di questa specie, ora classificata in pericolo critico di estinzione (codice CR) nella Lista Rossa dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN).

Un esemplare di Saiga
Un esemplare di Saiga

In Europa e Asia è ben nota la diffusione della peste suina africana che è passata dagli allevamenti ai cinghiali e ad altri suidi selvatici, alcuni dei quali minacciati di estinzione nel Sud Est asiatico. Il virus si è diffuso anche in alcune zone d'Italia e ha portato le autorità sanitarie a decidere l'eliminazione di interi allevamenti nelle zone rosse. Emblematico il caso della Sfattoria degli Ultimi a Roma, un santuario (non un allevamento) in cui vivono maiali e cinghiali perfettamente sani, liberi, protetti e isolati dai selvatici, sui quali pende la spada di Damocle di un possibile abbattimento poiché si trovano proprio nella zona rossa. Gli autori dell'editoriale su Science citano anche altri drammatici salti di specie di patogeni, come quelli del batterio Mycoplasma gallisepticum dal pollame ai fringuelli e ad altri uccelli canori del Nord America; del Mycobacterium bovisbatteri passato dai bovini ai mammiferi selvatici che vivono su tutto il pianeta e del vaiolo delle capre domestiche trasmesso ai ruminanti selvatici. In questo contesto potremmo anche citare il rischio di pandemie come quella di COVID-19 che stiamo ancora vivendo, nella quale il coronavirus SARS-CoV-2 è passato all'uomo in Cina proprio a causa dello sfruttamento degli animali.

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I due scienziati evidenziano che i governi e le istituzioni stanno affrontando la diffusione dei patogeni dagli allevamenti come un problema economico all'industria zootecnica, non curandosi delle conseguenze sulla fauna selvatica e sulla biodiversità. Per questo sottolineano l'importanza di mettere a punto un piano che riveda dalle fondamenta i metodi e i numeri degli allevamenti, come indicato nell'articolo “Food in the Anthropocene: the EAT–Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems” pubblicato sull'autorevole rivista scientifica The Lancet. Gli scienziati propongono di ridurre le dimensioni e la densità degli allevamenti, di introdurre limitazioni al trasporto degli animali e fermare i contatti tra i domestici e quelli presenti in natura. Inoltre raccomandano che queste iniziative devono essere integrate da una virtuosa modifica nei modelli alimentati, con un passaggio dalle proteine animali a quelle vegetali, “in modo che la riduzione della produzione di bestiame si rispecchi in un'equivalente riduzione della domanda di carne, latticini e uova”. Come spiegato al Guardian dal professor Sam Sheppard, docente di genomica microbica ed evoluzione presso l'Università di Oxford, solo eliminando gli allevamenti intensivi si ridurrebbe il rischio di malattie infettive. La speranza e che gli enti, le istituzioni e i governi accolgano questi allarmi e diano inizio a una transizione anche da questo punto di vista, promuovendo soluzioni virtuose per il benessere di tutti.

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