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Opinioni

Imprese italiane in affanno, i concorrenti esteri sorridono

Mentre in Italia banche e grandi aziende sono sotto i riflettori per presunti casi di truffa e corruzione, i grandi investitori mondiali rilevano multinazionali a suon di miliardi. Magari in attesa di qualche “saldo” tricolore…
A cura di Luca Spoldi
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Heinz

Mentre la “ricetta tedesca” mostra sempre più la corda e i dati macro si incaricano di smentire i propugnatori della liturgia “lacrime&sangue” secondo cui una “sana” austerità che mescoli una feroce repressione fiscale a un’altrettanto dolorosa stretta sul credito è il solo modo di “purgarsi dei peccati” commessi nei decenni precedenti (peccati che peraltro in Italia avevano significato da un lato far crescere una pletora di clientele, lobbies e caste ai danni della collettività facendo volare il debito pubblico sopra il 120% del Pil ovvero ad oltre 2 mila miliardi, dall’altro squilibrare il rapporto prestiti/depositi bancari sino ad arrivare a punte pari a 1,4-1,7 volte), il difetto macroscopico del sistema-Italia appare sempre più evidente.

Banche povere hanno finanziato aziende povere, per lo più non badando troppo alla qualità del credito che erogavano quanto alla vicinanza del singolo imprenditore all’azionista di maggioranza o alla forza politica (o sindacale) in grado di condizionare l’operato del management delle banche. Imprenditori incapaci di guardare più in là della punta delle proprie scarpe hanno sacrificato ogni investimento in ricerca e innovazione per inseguire il profitto immediato, cui spesso hanno saputo legare bonus ed emolumenti milionari (in euro) per sé a discapito della sostenibilità nel tempo dei risultati conseguiti. Investitori attratti più dalla possibilità di effettuare operazioni di trading o operazioni a leva più che investimenti di lungo periodo non sono stati in grado o non hanno voluto offrire un’alternativa capace di sopperire alle carenze del sistema bancario ed industriale autoctono. Il tutto condito da conflitti d'interesse, casi di corruzione e intrallazzi vari che una volta scoperta hanno puntualmente allontanato gli investitori e messo in serie difficoltà le aziende o le banche coinvolte.

Mentre in Italia la crisi falcidia sempre più settori e aziende, negli Stati Uniti i grandi investitori mondiali hanno portafogli che grondano miliardi di dollari di liquidità, liquidità che viene impiegata per qualche buon acquisto, come nel caso di HJ Heinz, produttore leader di ketchup, conserve di verdura, condimenti e piatti pronti (a cui fa pure capo, sin dal 1963, il marchio Plasmon, specializzato negli alimenti per l’infanzia) che oggi in una nota ha annunciato di aver raggiunto un accordo definitivo con 3G Capital (società di private equity fondata nel 2004 dal brasiliano d’affari brasiliano figlio di due immigrati svizzeri Jorge Paulo Lemann assieme a due vecchi soci d’affari, Marcel Telles e Carlos Alberto Sicupira) e Berkshire Hathaway (la finanziaria d’investimento del “guru di Omaha” Warren Buffett) per essere rilevata dalle medesime per 28 miliardi di dollari, debiti compresi.

Per capirci, l’83,33% di Parmalat è costata a Lactalis 3,7 miliardi di euro in tutto (pari a una valutazione del 100% di Parmalat inferiore ai 4,2 miliardi), mentre nel 1988 il gruppo Buitoni (proprietario anche del marchio Perugina) era stato ceduto dalla Cir del gruppo De Benedetti alla svizzera Nestlè per 1.600 miliardi di “vecchie” lire (pari a circa 830 milioni di euro). Che l’Italia sia “in vendita” non lo si scopre oggi, che altri “pezzi pregiati” del Belpaese rischino di finire in mano estere neppure. Non è detto sia sempre un male, perché è meglio una proprietà straniera che investe di una italiana che fatica o non ha interesse a investire un euro. Ma forse sarebbe meglio decidere rapidamente quali possano essere i settori su cui è possibile e auspicabile puntare, quali le aziende realmente strategiche da difendere (in modo legittimo, non certo giustificando ex post comportamenti illegali o lamentandosi delle “interferenze” della magistratura e dei supposti freni posti dall’azione giudiziaria allo sviluppo economico del paese), quali forme societarie siano meritevoli di incentivo.

Anche perché una cosa è certa: vuoi per mancanza di capitali, vuoi per carenza di visione strategica, vuoi ancora per problemi giudiziari e di comportamenti poco corretti di azionisti o manager, ogni qual volta un gruppo italiano va incontro a un periodo di difficoltà i suoi concorrenti si fregano le mani, pronti ad approfittarne e magari a lanciare qualche “salvagente” interessato approfittando della situazione per fare un investimento a prezzi di saldo. Il che non mi pare possa costituire una premessa per il rilancio dell’economia di questo disgraziato paese che tanta poca attenzione presta alla realtà e fin troppa ne concede ai racconti e alle favole, di tutti i generi e colori. Col rischio di svegliarsi più povero di prima.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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