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Europa, l’austerity non basta se non si torna a crescere

Mentre Hollande chiede maggiore impegno per la crescita ma ribadisce il suo sostegno all’euro anche Mario Draghi (Bce) invita i governi a maggior coraggio per avviare riforme che rilancino la crescita in Europa.
A cura di Luca Spoldi
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Hollande giornalisti

Crescita, basta la parola. Mercati finanziari sempre volatili in Europa, ma stavolta il segno è positivo: merito delle novità che potrebbero emergere in Francia, dove il candidato presidenziale francese Francois Hollande preme per dare più spazio a misure a favore della crescita e non solo di austerity fiscale ma si dichiara europeista convinto, allontanando i timori di una deriva anti-euro il cui rischio è apparso chiaro dal consistente numero di voti andati al primo turno al candidato della destra xenofoba e nazionalista, Jean-Marie Le Pen. Nonostante i timori di alcuni commentatori, soprattutto di casa nostra, Hollande si conferma non essere il principale problema che preoccupa gli investitori come già ho avuto modo di spiegarvi, tanto che anzi parlando con qualche collega ieri alla domanda “chi pensi possa fare maggiori danni all’Europa tra Hollande e Merkel?” mi sono sentito invariabilmente rispondere “meglio Hollande, o anche uno Sarkozy “rinnovato” che tenga fede alla ultime dichiarazioni che non l’eccessiva rigidità del Cancelliere tedesco”. Il vento che spira a favore di Hollande sembra del resto iniziare a far breccia anche a Bruxelles e a Berlino: sono di ieri le dichiarazioni di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, secondo cui al patto per un maggior rigore fiscale l’Europa deve ora aggiungere un patto per la crescita e per riuscirvi occorre che i governi siano “più ambiziosi nelle riforme strutturali”. Parole che, a sorpresa, ricevano l’apprezzamento pubblico anche di Angela Merkel (la quale del resto può vantare un’economia che già da un decennio, ad opera del suo predecessore social democratico, Gerhard Schroder, ha effettuato una serie di riforme strutturali che ne hanno incrementato sensibilmente la competitività a livello internazionale) e mettono non poco in imbarazzo il governo italiano, fino a ieri concentrato nello sforzo di ribadire che no, non si può ancora pensare alla crescita e che no, non si possono tagliare le tasse. In realtà se è vero che a breve termine le esigenze di far quadrare i conti, sotto la pressione sia della Germania sia dei mercati finanziari (timorosi di vedere i titoli di stato dell’elefante italiano fare la fine di quelli del topolino greco), hanno lasciato poco spazio a Mario Monti e ai suoi ministri lo scorso novembre a causa della situazione precaria ereditata dal governo precedente, è anche vero che la radice della crisi italiana, che da oltre un quindicennio non riesce a produrre una crescita economica meno che risibile, risiedono proprio nella mancanza di riforme strutturali. Riforme che erano da fare 10 o 15 anni fa e che invece non si riescono a portare a termine neppure oggi, nonostante il “bombardamento psicologico” di spread, tassi, crolli dei mercati e quant’altro, come le vicende di questi mesi hanno dimostrato ad abundantiam.

Riforme per tutti, riforme per tornare a vivere. In realtà in una situazione molto simile a quella italiana si trovano anche molti altri paesi: se l’Olanda attraversa una crisi istituzionale (sono appena state indette elezioni anticipate) dovuta al tentativo, fallito, del governo in carica di introdurre ulteriori misure di austerity che neppure i “primi della classe” sembrano più disposti a tollerare passivamente, la Grecia pare ormai ridotta in uno stato comatoso che mette in forse ogni obiettivo futuro sulla cui base sono stati varati i due programmi di aiuti internazionali, il Portogallo sta cercando di mantenersi in un difficile equilibrio, la Spagna sembra voler prendere tempo per cercare una soluzione e solo l’Irlanda pare avere le carte in regolar per tornare a camminare sulle proprie gambe dal prossimo anno, salvo ulteriori incidenti di percorso. In un simile scenario se gli investitori istituzionali dovessero disinnamorarsi nuovamente e definitivamente dei titoli di stato europei non basterebbe alcun “firewall” per evitare una nuova e questa volta definitiva crisi che coinvolgerebbe anche molti paesi “core” a partire dalla Francia, la cui economia è tra le più chiuse e rigide del vecchio continente. Ognuno, insomma, deve finire (in alcuni casi iniziare) di fare i compiti in casa propria prima di potersi mettere a criticare gli altri, salvo la Germania che però a questo punto rischia di trovarsi isolata e pertanto deve iniziare a valutare come e quanto scendere a patti, sempre pensando che a maggio ci saranno le elezioni politiche tedesche. Così una ricetta “universale” per chiudere la crisi non appare, ma è sempre più evidente che si tratti di cambiare “governance” sia a livello di regole comunitarie, sia a livello di singolo paese.

La ricetta da seguire. La via corretta e virtuosa, tale da rendere i sacrifici richiesti sensati prima ancora che tollerabili, resta quella di un abbattimento delle barriere che elimini rendite di posizioni costruite nei decenni passati e introduca il “virus” della concorrenza in ogni settore. In parallelo occorrerà rimodulare (riducendo ove il caso, migliorando in tutti i casi) la spesa pubblica, decidendo quali siano i settori realmente strategici per i singoli paesi e per l’Europa e cercando di evitare di buttar soldi per difendere industrie decotte e settori maturi magari ad elevata intensità di lavoro ma con scarse prospettive non solo di crescita ma anche solo di sopravvivenza nei decenni a venire. Occorrerà dare strumenti normativi (e ove possibile incentivi) che rendano possibile a chi ha la capacità e la voglia di dar vita a nuove imprese, occorrerà migliorare l’accesso al credito ma anche, come notava il professor Alessandro Berti, aumentare la cultura e la consapevolezza degli imprenditori e delle imprese circa le proprie necessità di credito e i propri modelli di business. Occorrerà insomma riprendere a far vivere l’economia del vecchio continente rinnovandola, puntando sui giovani, puntando sull’innovazione (di prodotto, di management, di organizzazione aziendale, di relazioni industriali, di distribuzione), puntando a sviluppare (come hanno fatto benissimo alcune grandi imprese tedesche) una maggiore presenza sui mercati emergenti. Non è nulla di sconvolgente, credetemi: appare tale solo per chi ha smesso di vivere, è invecchiato “dentro”, ha deciso che vale più la difesa di quanto raggiunto in passato che non la voglia di conseguire nuovi traguardi per il futuro. Vecchi imprenditori, vecchi politici, vecchie idee, vecchi modelli di business: ci sono a volte tanto cari, ma come ogni vecchio, purtroppo, non possono evitare l’unico destino che ci accomuna tutti. Accanirsi nel tentativo di prolungare la loro sopravvivenza rischia di distogliere ogni energia dalla cura per assistere la nascita di nuove aziende, nuovi modi di fare politica, nuovi modelli di business in grado di creare ricchezza e benessere.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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