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Taiwan, ultime news

Perché la guerra tra Cina e Tawain non è inevitabile (anche se tutto fa pensare al contrario)

Un nuovo record di 18 caccia nucleari cinesi sorvola Taiwan. L’ultimo precedente di questo tipo risale al 2021 ma negli ultimi due anni ci sono state più di mille incursioni. La crisi dello stretto consolida una situazione di nuova normalità nei rapporti. Gli esperti temono per il 2024, il 2027 o il 2030, ma la guerra non è inevitabile.
A cura di Gian Luca Atzori
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Un nuovo record di caccia nucleari cinesi sorvola Taiwan. L'ultima volta che furono inviati 16 bombardieri H6 era l’ottobre 2021. Questa volta dei 21 jet inviati, 18 erano caccia nucleari.

L’invasione dello spazio aereo taiwanese fa parte della nuova normalità dei rapporti nello stretto che si sta instaurando. Infatti, al netto della portata atomica, anche il mese scorso sono stati mandati 21 caccia mentre negli ultimi due anni ci sono state più di mille incursioni cinesi nello spazio di difesa aerea (ADIZ) dell’isola di Formosa.

Secondo gli esperti, tali azioni diverranno sempre più comuni in preparazione di una possibile invasione nei prossimi sette anni. Le ipotesi della sicurezza americana considerano tra i momenti di maggiore criticità il 2024 (con le nuove presidenziali di Taiwan), il 2027 o il 2030.

Cosa può succedere tra il 2024 e il 2027

Non si ha la certezza di quando e come il tentativo di riconquista avverrà, ma si hanno pochi dubbi sul fatto che a prescindere dall’intenzione, si sta costruendo la capacità per farlo, e tale capacità sarà pronta nei prossimi 5 anni.

Secondo quanto dichiarato dal Generale americano Mark Milley, “la valutazione si basa su un discorso del presidente Xi che ha sfidato l'Esercito popolare di liberazione ad accelerare i suoi programmi di modernizzazione per sviluppare capacità per impadronirsi di Taiwan e spostarla dal 2035 al 2027″.

Un’azione che Xi ha ripetuto anche di recente. Dopo essere stato rieletto per la terza volta divenendo il Presidente più longevo da Mao, ha chiesto all’esercito di “prepararsi al combattimento” e implementare le nuove linee guida del XX Congresso nel quale si è parlato di una “pericolosa tempesta” in arrivo.

La valutazione di Milley è puramente operativa, si tratta di “una capacità, e non di un intento di attaccare”. Tuttavia, quando si ha la capacità, “l'intento è qualcosa che potrebbe cambiare rapidamente”.

Questo veniva detto a fine 2021, qualche mese dopo, l'amministrazione Biden è diventata sempre più ansiosa per le manovre cinesi, con funzionari che hanno paventato azioni di maggiore forza verso il 2024. C’è chi ha previsto che Pechino voglia bloccare l'accesso all’isola o controllare il traffico intorno, attraverso il quale passano regolarmente le navi militari statunitensi e la gran parte dei prodotti di importazione e esportazione di Giappone e Corea, tra cui numerosi beni di prima necessità che potrebbero gravemente compromettere la situazione socio-economica dell’area.

Una preoccupazione che ha portato Biden a tentare, con insuccesso, di dissuadere Nancy Pelosi, speaker della Camera, dal recarsi a Taipei.

Verso il 2030

Anche secondo la direttrice dell’Intelligence nazionale Avril Haines, da qui al 2030, la minaccia della Cina su Taiwan è “acuta” e Pechino “sta lavorando sodo per mettersi nelle condizioni di riprendersi l'isola”.

Tuttavia, come scritto su Fanpage.it, “la stessa Haines insieme al tenente generale Scott Berrier, hanno affermato che ancora non sappiamo effettivamente quali lezioni Xi Jinping stia apprendendo dal conflitto ucraino. Infatti, come è valso storicamente per Hong Kong (è stato eletto un leader pro-Pechino alla sua guida), gli stessi analisti dichiarano che i cinesi preferirebbero evitare la forza, utilizzando manovre pacifiche nel lungo periodo”.

Uno dei modi potrebbe essere procedere attraverso la creazione di una maggiore integrazione economica con l’implementazione di un’area di prosperità comune, oppure, partire dall’annettere le isole taiwanesi più prossime alla Cina continentale, come Kinmen e Matsu.

Bill Burns, direttore della CIA, non pensa che “quanto accade in Ucraina abbia minato la determinazione di Xi per Taiwan”. Pensa che tuttavia “abbia influenzato i suoi calcoli sul come e sul quando farlo”.

Infatti, Xi avrebbe voluto realizzare la riunificazione entro il 2025, o almeno questo era il timore dell'intelligence Usa e del Ministro della Difesa taiwnaese. C’era persino chi riteneva fosse pronto a farlo dopo il Congresso appena svoltosi. Adesso, invece, si parla di un periodo più esteso, entro il 2030.

Rapporti tesi tra Washington e Pechino

In questo quadro, Cina e Usa intensificano l’impegno militare nello Stretto, con nuovi incrociatori, cacciatorpedinieri lanciamissili anti-nave e anti-aereo.

Gli Stati Uniti abbandonano l’ambiguità strategica e dichiarano apertamente di intervenire militarmente a difesa dell’isola in caso di invasione. Allo stesso tempo, dopo l’insuccesso afgano e l’invasione ucraina, la fiducia in Washington nell’area pacifica ha iniziato a vacillare.

Tokyo e Seoul le sono sempre più vicine e da una parte vengono rassicurate, dall’altra però vengono esposte in una posizione scomoda e senza molte vie d’uscita che potrebbe portare loro a intervenire con azioni di contenimento per evitare lo scontro diretto Usa-Cina.

Tuttavia, anche il mito dell’autoritarismo si è incrinato. Se negli ultimi anni si è diffusa la teoria che il regime cinese fosse più efficiente delle democrazie occidentali, il rapporto con Putin e la gestione della politica zero-Covid hanno mostrato l’altra terribile faccia della medaglia, con il paese che fatica enormemente a riaprire e ripartire.

Inoltre, Pechino sembra essere cosciente di come un attacco all’isola possa generare uno scontro in grado di durare anni o persino decenni, con conseguenze nefaste da un punto di vista diplomatico ed economico. Attualmente, infatti, con la Russia in questa situazione, il rapporto economico tra Usa, Ue e Cina è il principale volano dell’economia mondiale e i rischi nel comprometterlo sarebbero molto estesi.

Opinioni pubbliche

Diverse situazioni dunque rendono improbabile lo scontro imminente e numerosi sondaggi fanno percepire il sentire della popolazione.

Una rilevazione di settembre della Taiwanese Public Opinion Foundation (TPOF) ha mostrato che solo il 30% crede di avere possibilità di vittoria in caso di attacco. Tuttavia, solo uno su 20 (il 5%) ritiene che l’invasione sarà imminente.

Prima dell’estate meno della metà dei taiwanesi (37%) credeva che ci sarebbe stato un intervento militare e il 56% non riteneva la guerra inevitabile nella risoluzione delle dispute tra i paesi. The Economist aveva invece sottolineato come prima che scoppiasse il conflitto ucraino i taiwanesi disposti a combattere fossero appena il 40% mentre in seguito erano 7 su 10, quasi il doppio.

I dati di Taiwan sono però molto lontani dalla percezione che si esprime al di fuori dell’isola. Secondo l’Australian Institute, sono uno su quattro gli australiani convinti di un attacco non troppo lontano nel tempo. Situazione ancora più drastica in Giappone e Corea del Sud, dove secondo i sondaggi di Yomiuri Shimbun e Hankook, il 73% è convinto che Pechino proverà ad invadere.

Per i dati forniti dal think tank no-profit Genron e da China International Communications Group (CICG), la metà dei giapponesi e dei cinesi intervistati ritiene che questa azione avverrà nel prossimo futuro.

Il risiko del Pacifico

Come spiegato su Fanpage a più riprese, “Taipei non è Kiev così come Xi non è Putin. Il contrasto tra Cina e Taiwan viene considerato una questione di politica interna e non estera dalla gran parte dei paesi e organizzazioni al mondo, inclusi Onu e Oms”.

Persino i principali sostenitori dell’isola, gli Usa, sposano il principio dell’Unica Cina dal 1979, nonostante lo abbiano modificato qualche mese fa, eliminando il passaggio in cui si dichiarava di non sostenere l’indipendenza di Formosa.

Tuttavia, anche qualora la situazione di Taiwan dovesse trovare una risoluzione pacifica, la zona intorno è preda di un escalation legata alla crescita del clima multipolare non imputabile ad una singola potenza.

Nelle scorse settimane Giappone e Corea del sud si sono svegliati con gli allarmi anti-raid, in quella che a Seoul è stata descritta come la peggiore intimidazione dalla separazione. Non è la prima volta che assistiamo alle minacce di Kim, ma l’intensità è senza precedenti.

Persino Mosca è intervenuta nel tentativo di scoraggiare “ulteriori innalzamenti della tensione” visto le attuali fratture globali. Un contesto che rende la Nord Corea l’unico paese in grado di trarre vantaggio da una situazione di caos crescente in cui poter emergere e rivendicare una nuova posizione rispetto all’isolamento che la caratterizza, sentendosi al tempo stesso legittimata dalle violente pretese territoriali che attualmente alimentano la politica globale.

In un simile quadro diviene rilevante anche il ruolo italiano, con voci nei palazzi che speculano su un possibile ruolo di Nancy Pelosi nella futura diplomazia italo-americana, o sulle visioni anti-cinesi e pro-taiwanesi del nuovo governo Meloni.

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