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Perché Kony 2012 fa ancora discutere

Nonostante le dichiarazioni del CEO di Invisible Children, intervenuto in risposta a quanti accusavano la sua organizzazione di poca trasparenza, restano aperti gli interrogativi su questa campagna virale il cui fine dovrebbe essere la cattura di uno dei più feroci criminali del mondo, l’ugandese Joseph Kony.
A cura di Nadia Vitali
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Nonostante le dichiarazioni del CEO di Invisible Children, intervenuto in risposta a quanti accusavano la sua organizzazione di poca trasparenza, restano aperti gli interrogativi su questa campagna virale il cui fine dovrebbe essere la cattura di uno dei più feroci criminali del mondo, l ugandese Joseph Kony.

Da quando è stato messo in rete, appena pochi giorni fa, il documentario Kony 2012 non ha mai smesso di far parlare di sé nel bene e nel male: nel bene, per tutti coloro i quali si sono commossi venendo a conoscenza degli orrori commessi da Joseph Kony in una remota regione compresa tra il confine settentrionale dell'Uganda, la Repubblica Centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo ed il neo-nato stato del Sud Sudan recentemente teatro di sanguinosi scontri tra i Murle ed i Nuer. Nel male per chi non è rimasto semplicemente colpito ed emotivamente coinvolto dal video girato, prodotto e messo in rete dagli attivisti di Invisible Children ma ha voluto vederci chiaro sulla vicenda, approfondendo il ruolo, le risorse e le caratteristiche di questa organizzazione non governativa.

Tra sostenitori e detrattori, lo scontro all'insegna del social network – Così, prevedibilmente, il fuoco della questione è stato irrimediabilmente spostato sui promotori e realizzatori dell'iniziativa, portando di fatto a creare una stagnante situazione di sostenitori ed oppositori, ormai una sorta di nemesi della rete: che se ci ha messo in comunicazione, in ogni parte del mondo, non può certamente cambiare e trasformare la nostra stessa natura di esseri umani. Anzi, nella maggior parte dei casi, creando uno strumento in grado di dar voce «a tutti, ma proprio a tutti» quali sono i social network, si direbbe quasi che abbia marcato ancor più quelle differenze ideologiche connaturate a tutte le società in cui si conosca il principio di libertà di espressione, canalizzandole volta per volta in singoli episodi che cristallizzano le due o più posizioni più diffuse in merito all'ultimo fenomeno di costume o ai più recenti eventi storici. Negli ultimi tempi, poi, sembrerebbe quasi che i dibattiti, molto spesso nati anche su questioni degne di un'attenzione sinceramente secondaria, assumano toni aspri e volontariamente forti: insomma, non sono in pochi a credere che, almeno su twitter e facebook, nel commentare un video di youtube o le opinioni di un blogger, stiamo diventando tutti un po' troppo arrabbiati. Del resto, certamente per quanto riguarda l'Italia, innegabilmente il linguaggio si è imbarbarito negli ultimi decenni, dando luogo così a situazioni in cui la violenza verbale è diventata norma e regola, impoverendo spesso anche le argomentazioni sensate, il buon senso e le idee più sincere e candide.

Kony 2012, usare la rete, finalmente, per riflettere su questioni della massima importanza Cercare di essere il più obiettivi possibile, in questo clima in cui c'è quasi un'ansia di partecipazione equamente distribuita in ogni angolo di mondo, diviene incredibilmente faticoso. Eppure, valutare con oggettività l'opera dei giovani attivisti di Invisible Children è più che mai un'urgenza, dal momento che il dibattito è accurato, sensato e motivato. Da una parte c'è quell'orrore, quel male assoluto incarnato da Joseph Kony, colui il quale ha rapito migliaia di bambini, strappandoli alle proprie famiglie (molto spesso trucidate nell'ambito di rastrellamenti feroci nei villaggi che in Africa hanno una lunghissima storia alle spalle), rendendoli schiavi sessuali o baby-soldati per ingrossare il suo Esercito di Resistenza del Signore, che vuole stabilire in Uganda un regime basato sulla religione cristiana, non spuria da molti elementi sincretici frutto della tradizione locale preesistente,; un guerrigliero che ritiene di essere in contatto con Dio e di metterne in pratica i messaggi ricevuti nelle modalità peculiari che gli vengono richieste dal Signore. Ed ecco che quel documentario, visto da oltre 70 milioni di utenti in tutto il mondo, assolve magistralmente alla sua indispensabile funzione divulgativa: chi, fino a pochi giorni fa, poteva dire di sapere chi fosse Joseph Kony, sebbene la sua attività fosse nota alla comunità internazionale che lo ha inserito da anni nella lista dei criminali più ricercati in assoluto? Ora possiamo dire che quasi tutti conoscono l'orrore dei bambini-soldato e, senza dubbio, la consapevolezza globale potrebbe già essere un primo passo verso la risoluzione della vicenda.

Le critiche contro gli attivisti: può bastare un comunicato a dissolverle? – Dall'altra sono «schierati» quanti hanno mosso accuse in questi giorni contro Invisible Children, accuse riassumibili grossomodo così: l'organizzazione sarebbe poco trasparente nei propri bilanci ed avrebbe delle spese manageriali ed organizzative sproporzionate rispetto a quanto viene realmente investito sul campo e, fatto ben più grave, applicherebbe una visione semplicistica ad un conflitto che da anni lacera l'Uganda e nel quale la controparte in gioco, non può certamente essere additata come quella “buona”. Una visione, sia consentito, vagamente hollywoodiana. A questi capi di imputazione ha preferito rispondere direttamente il CEO di Invisible Children attraverso un video-comunicato in cui spiega che effettivamente i bilanci sono stati da sempre visibili dal sito ufficiale (per quanto il sovraccarico di traffico potrebbe averli resi effettivamente irreperibili negli ultimi giorni); e che gli investimenti in determinati settori delle donazioni ottenute non hanno luogo a discapito di quelli sul campo. Del resto, è pur vero che per realizzare un video dall'effetto virale potentissimo quale è Kony 2012, record assoluto di click, in grado di diffondere in ogni punto della terra la storia del diabolico guerrigliero ugandese le spese potrebbero essere elevate: ma mai come in questo caso il fine giustificherebbe il mezzo. Insomma, dal momento che siamo tutti d'accordo sulla necessità di fermare Joseph Kony, sostenitori e detrattori di Invisible Children ci si potrebbe chiedere: quale è il motivo di stare ancora qui a raccontarne? Innanzitutto perché nel messaggio diffuso il CEO si guarda bene dall'approfondire una questione grave e che è la più grave delle colpe addebitate all'associazione: non risponde, infatti, alle accuse di connivenza con il Governo ugandese che, va ricordato, è retto dal Museveni in carica da 25 anni, non godendo certamente la fama di Presidente democratico (qualche anno fa si discusse anche l'ipotesi di rendere fuori legge l'omosessualità punendola con il carcere a vita o con la morte). Si limita a promuovere, ancora una volta, i suoi nobili intenti, saziando il bisogno di «sentirsi buoni» di ciascuno (del resto l'ammiccante messaggio, condividendo questo link potrai veramente fare qualcosa, è uno dei segreti di questo immenso successo).

La pace non si è mai fatta con i fucili, ormai (finalmente) lo sappiamo – Diverse sono le ragioni che, ancora una volta, spingono a riflettere sulla questione. La prima, la più banale, sulla scia di una ciceroniana historia magistra vitae è un legittimo interrogativo: e se dietro questo encomiabile scopo si celassero, come spesso è accaduto, l'industria delle armi e mire le espansionistiche politiche dell'amministrazione Obama? Non c'è niente di male ad essere onesti e ad ammetterlo: le ansie di «importazioni democratiche» a stelle e strisce sono sempre veicolate dall'interesse. Non è una critica, ma una costatazione oggettiva: nel mondo esistono decine di regioni sottoposte a regimi tirannici o invase da paesi stranieri, nessuno pretende che sia l'America a liberarle, ma tutti hanno diritto ad essere correttamente informati, non solo emozionati. Ecco perché in molti, da subito, hanno accusato l'associazione di avere fini occulti che miravano a mutare gli equilibri politici nell'Africa centrale o ad invadere di armi l'Uganda: dietro di questo, alcuna speculazione, solo la fredda analisi di quelli che sono dati che documentano con accuratezza come, da occidentali, abbiamo armato le dittature di tutto il mondo (Libia in testa, prima di scoprire improvvisamente che Gheddafi era il gran nemico). Se non è questo il caso, sarà solo il futuro a dirlo; ma dubitare, alla luce del passato, è legittimo, anzi sacrosanto. Poi c'è questo scatto infelice diffuso da Vice.com

Nonostante le dichiarazioni del CEO di Invisible Children, intervenuto in risposta a quanti accusavano la sua organizzazione di poca trasparenza, restano aperti gli interrogativi su questa campagna virale il cui fine dovrebbe essere la cattura di uno dei più feroci criminali del mondo, l ugandese Joseph Kony.
Jason Russell, Bobby Bailey e Laroon Poole, registi e fondatori di Invisible Children. La foto risale al 2008 ed è stata scattata in un'area al confine tra Sudan e Congo. 

Le radici di una polemica – Inevitabile ed immediata la pioggia di polemiche: va bene anche accettare che coloro i quali sono alla guida dell'associazione abbiano voluto fare una fotografia palesemente scherzosa da portare a casa a parenti ed amici, in compagnia di quei militari che si occupavano della loro sicurezza (come è stato spiegato anche in via ufficiale). Eppure, davvero, si stenta a trovarci qualcosa di divertente. E, confrontandola con quanto detto poco sopra, assume un'aria ancora più sinistra: e certamente non a causa della loro aria pulita da rampolli di buona famiglia che si approcciano con aria ingenua, ma armati delle migliori intenzioni, ad un mondo orribile (ancora una volta, in perfetto stile hollywoodiano) né tanto meno a causa di chissà quale messaggio nascosto. Semplicemente è un'azione stupida: si potrebbe sfidare chiunque a continuare a far donazioni a qualunque associazione umanitaria dopo averne visto il leader in tale posa. Ma non fa niente, va bene anche se i promotori dell'iniziativa non brillano per saggezza e maturità: l'entusiasmo e la gioventù fanno commettere colpe di gran lunga più gravi. L'ultima amara constatazione è forse il solo motore che ha mosso le polemiche di questi giorni o, quanto meno, il più importante. L'atroce racconto dei bambini di Joseph Kony, ben guarnito da artifici retorici cinematografici sensazionalistici (il candido bambino americano contrapposto ai volti mutilati dei piccoli africani sottratti alle proprie famiglie) soddisfano certamente l'esigenza di commuoversi che in quanto esseri umani abbiamo tutti in ogni parte del mondo. Ma in molte aree dell'Africa la popolazione infantile muore soprattutto a causa di diarrea ed influenza; senza tirare in ballo l'AIDS e chi sostiene che il preservativo non vada usato perché «si pecca». E il fatto che le storie di queste vittime siano emotivamente meno coinvolgenti e per questo non potranno mai salire agli onori della cronaca, crudele ma vero, fa molta, molta rabbia.

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