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Perché Gorbaciov è così amato in Occidente e odiato in Russia

La morte di Mikhail Sergeevic Gorbaciov, l’uomo della perestroyka, è un perfetto indicatore della distanza politica, psicologica e morale che ormai si è aperta tra l’Occidente e la Russia.
A cura di Fulvio Scaglione
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La morte di Mikhail Sergeevic Gorbaciov, l’uomo della perestroyka, l’ultimo segretario del Partito comunista sovietico, il primo e unico presidente dell’Unione Sovietica, il premio Nobel per la Pace, è un perfetto indicatore della distanza politica, psicologica e morale che ormai si è aperta tra l’Occidente e la Russia. Da noi, che lo chiamavamo Gorby, il vecchio leader morto a 92 anni è ricordato in generale con affetto e rimpianto, come il volto di una stagione di distensione internazionale, di dialogo, di disarmo. In Russia, nella maggior parte dei casi si ostenta una certa indifferenza, come quando scompare il vecchio zio bizzarro che in vita aveva combinato un sacco di pasticci. Il cordoglio ufficiale è distaccato, e in ogni caso è sovrastato dal rumoroso rancore di coloro, non pochi, che lo accusano di aver distrutto l’Urss e per questo, anche ora, lo maledicono.

D’altra parte c’è una logica in questa apparente follia. Se a volte non riusciamo a vederla, è perché negli anni Ottanta ci siamo convinti che Gorbaciov fosse davvero “come noi”, avesse davvero in uggia l’Unione Sovietica. Era vero invece il contrario: Gorby amava l’Urss, al punto da tentare la mission impossible di riformarla, renderla pacifica ed efficiente, farla uscire dalla stagnazione politica e dalla crisi economica. E proprio qui si misura l’abissale distanza tra la sua stagione e quella attuale. Tra il suo amore per l’Urss e la rivalutazione dell’Urss che oggi in Russia avanza di giorno in giorno.

Prendiamo Stalin. In nome della vittoria sul nazismo nel 1945, e della centralità che la Grande Guerra Patriottica (così i russi chiamano la Seconda guerra mondiale) ha assunto nella memoria storica russa, il tiranno georgiano è da anni oggetto di un insidioso processo di recupero che porta con sé una serie di conseguenze, per esempio nel giustificare una visione autocratica e centralizzata dello Stato. Gorbaciov, diventato segretario generale del Pcus a soli 54 anni nel 1985, nel 1986 riabilitò il dissidente Andrey Sakharov, altro premio Nobel per la Pace, e lo liberò dall’esilio nella città chiusa di Gorky a cui era stato condannato nel 1980. Ancora: fu con Gorbaciov che le vittime delle repressioni staliniane poterono essere finalmente censite, ricordate e onorate, e grazie a lui nacquero le molte associazioni che si assunsero quell’arduo impegno.

Tutti ricordano le grandi parole d’ordine dei sei anni (1985-1991) della stagione gorbacioviana: perestroyka e glasnost’. La prima (ristrutturazione), alludeva alla riforma dei processi economici interni. Già nel 1988, infatti, Gorbaciov lanciò la sua riforma più clamorosa, la Legge sulle Cooperative che di fatto reintroduceva la proprietà privata nell’Urss, aprendo una piccola ma decisiva porta sull’economia di mercato. La Russia del secondo decennio di potere di Vladimir Putin ha imboccato la strada opposta. Sempre più Stato nell’economia. Non solo per quanto riguarda l’estrazione e vendita all’estero di gas e petrolio, risorse decisive per il Paese, completamente controllate dalle aziende pubbliche. Ma anche nella vita quotidiana dei cittadini: è stato calcolato che il 40% dei russi dipende, per la qualità della vita, dalla spesa pubblica, per una quota che arriva fino al 40% del reddito delle famiglie. Glasnost’, invece, si riferiva alla trasparenza dei processi interni, in sostanza al tasso di democrazia nel rapporto tra Stato e cittadini. Gorbaciov fu sempre fedele a questo obiettivo, tanto che nel 1990, quando divenne Presidente dell’Urss, fu eletto da un Parlamento per la prima volta multipartitico ed eletto in modo democratico. Nella Russia attuale avviene il contrario: Vladimir Putin è un leader tuttora sostenuto dai russi ma la Costituzione è stata cambiata per consentirgli, di fatto, di restare al potere a vita.

Ma il cambiamento più clamoroso ed evidente, lo scarto più ampio tra gli anni di Gorbaciov e quelli attuali, sta nel rapporto con l’Occidente. Gorbaciov (che, ripetiamolo, voleva riformare l’Urss, non distruggerla) era convinto che per cambiare il suo Paese e garantire un futuro migliore ai russi bisognasse trovare un accordo con l’Occidente, per mettere fine a una Guerra Fredda che per l’Urss significava, tra l’altro, un enorme spreco di risorse in armamenti. Ecco allora, in un solo anno, il 1989, due decisioni di portata storica: il ritiro dall’Afghanistan e l’abbandono del Muro di Berlino, che inauguravano una serie di accordi internazionali tesi alla fine della tensione tra i blocchi e al disarmo. Oggi avviene l’esatto contrario: tensione alle stelle, riarmo e addirittura guerra in Ucraina, nella terra di confine tra Russia ed Europa.

Mikhail Gorbaciov, ovviamente, non era un santo (la repressione violenta nei Paesi baltici, nel 1991, e in particolare in Lituania, è una macchia nella sua storia) e nemmeno incapace di errori (per esempio, fidarsi dei “vecchi” dirigenti che poi, nel 1991, organizzarono il golpe). E forse quella di riformare l’Urss era davvero una mission impossible, un’impresa disperata. Per questo si possono in parte capire i russi che lo accusano, anche se in realtà le difficoltà più crudeli vennero subito dopo, con le riforme (a quel punto, con l’Urss disgregata e finita, inevitabili) varate da Boris Eltsin. I russi, a loro volta, dovrebbero però capire noi e guardarsi intorno: davvero non dovremmo avere nostalgia di un leader che ci aveva fatti sperare in un mondo in cui Occidente e Russia potessero non solo tollerarsi ma addirittura collaborare? Davvero abbiamo sbagliato, allora, a credere in un mondo migliore?

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