Nell’ospedale di Gerusalemme dove donne palestinesi aiutano le israeliane a partorire: “Così superano la paura”

Dalle sale parto di Monza a Gerusalemme Est, Suor Valentina Sala ha passato anni a dirigere la maternità del Saint Joseph Hospital. A Fanpage.it racconta la "violenza" del nascere sotto occupazione e quel miracolo quotidiano che avviene quando una donna palestinese assiste una madre ebrea.
Suor Valentina, lei era un’ostetrica professionista in Italia. Come è finita qui a Gerusalemme?
Avevo tutto pronto: un ragazzo, un posto al San Gerardo di Monza, la mia vita pianificata. Ma cercavo il mio posto nel mondo. Dopo la tesi, sono finita quasi per caso dalle Suore di San Giuseppe dell’Apparizione. Li ho scoperto il carisma di San Giuseppe: saper sognare nel dubbio. Per nove anni in Italia non ho fatto l'ostetrica. Poi la mia superiora mi ha detto: "Riprendi a studiare, a Gerusalemme stanno costruendo il reparto di maternità". Sono arrivata nel 2013 e c’era solo cemento.
Com'è stato l'impatto con la sanità locale in questa terra?
Drammatico. Per due anni, mentre finivamo i lavori, osservavo gli ospedali a Betlemme o Nazaret. Ho visto una violenza ostetrica allucinante. Le donne venivano trattate in modo meccanico, zero empatia, spinte forzate. Le ostetriche, schiacciate dalla frustrazione dell'occupazione, scaricavano il potere sul soggetto più debole: la partoriente. Mi sono detta: "Se apriamo noi, dobbiamo togliere la violenza dal parto". Volevo che il Saint Joseph fosse un luogo di pace. Se nasci in modo dolce, forse non diventerai un violento.
Il vostro ospedale è a Gerusalemme Est, zona araba. Come siete arrivati ad accogliere le coppie ebree?
È successo per "incidente". Nel 2017 abbiamo introdotto il parto in acqua, primi a Gerusalemme. La prima a partorire è stata la moglie del nostro ingegnere palestinese, un atto di fiducia totale. Da lì si è sparsa la voce. Molte coppie ebree, che cercavano un parto naturale e non la catena di montaggio dei grandi ospedali israeliani, hanno iniziato a bussare alla nostra porta. Venivano con timore, mi prendevano da parte chiedendo: "Sorella, è sicuro per noi stare qui?". Io mentivo un po', dicevo di sì anche se non sapevo cosa sarebbe successo.
Come ha reagito lo staff palestinese?
Fu un trauma. Un'ostetrica di Betlemme mi disse testualmente: "Sorella, sono i nostri nemici, perché dobbiamo occuparci dei loro bambini?". Un'altra aggiunse: "Non voglio nemmeno vederli, questa non è la loro terra". Avevano ferite enormi: cugini uccisi dall'esercito israeliano, fratelli in prigione. Ma io ho tenuto il punto: il Saint Joseph è aperto a tutti. Col tempo ho visto miracoli umani. Quella stessa ostetrica mesi dopo mi confessò: "Quando assisto una donna ebrea, do il meglio di me perché spero che, vedendo come li trattiamo, scelgano di amarci e non di odiarci".
Cosa è successo in ospedale dopo il 7 ottobre 2023?
È stato uno shock totale. Io ero già stata spostata in un altro incarico, ma ero lì la mattina del 7 ottobre. I palestinesi erano angosciati, gli israeliani terrorizzati. C’è stata una scissione: i pazienti ebrei sono spariti per mesi. La gente mi chiedeva di raccontare storie di riconciliazione "romantiche", ma io dicevo di no: lasciate il tempo al dolore. Non si può chiedere a chi ha subito il 7 ottobre, o a chi vive il genocidio a Gaza, di abbracciarsi subito. La distanza a volte serve per far riposare l'intensità dei sentimenti.
Cosa vuol dire avere a che fare con tutto quello che avviene fuori dalle mura dell'ospedale?
Ricordo il 2021, durante i bombardamenti israeliani su Gaza e le risposate di Hamas. Le infermiere arabe guardavano i video dei razzi di Hamas esultando, e un secondo dopo entravano in stanza da una partoriente ebrea dicendo con dolcezza: "Habibti (cara), come va? Tutto bene?". È una capacità di scindere l'umano dal politico che noi occidentali facciamo fatica a capire. O ancora, un primario arabo che, dopo una discussione tecnica con una coppia ebrea che non accettava le sue indicazioni, mi disse: "Mi sono sentito come con i soldati al checkpoint". La sopraffazione, l'ingiustizia, sono dentro ogni gesto quotidiano, dentro ogni persona che ho incontrato in ospedale c'è racchiuso il conflitto esterno.

Lei spesso critica l'atteggiamento dei pellegrini e degli attivisti stranieri. Perché?
Perché vengono qui a fare battaglie che noi non abbiamo voluto fare quando avremmo dovuto. Si schierano, urlano, ma poi tornano a casa. Noi che viviamo qui dobbiamo abitare le sfumature. Io sono vissuta con i palestinesi, li amo, ma non posso ignorare l’altra parte della città. Noi stranieri abbiamo un ruolo chiave: possiamo essere ponti perché non siamo parte del trauma genetico di questa terra. Invece spesso diventiamo "tifosi", alimentando l'odio.
Qual è la sua missione adesso che non lavora più nell'ospedale?
Facilitare l'incontro con l'altro. Incontrare l'altro "disarmati" è l'unica terapia. Molti palestinesi hanno incontrato solo soldati o coloni nella loro vita. Quello che ha fatto il 7 ottobre e tutto quello che ne è susseguito è seminare questo terrore dell'altro per cui se tu sei diverso da me sei una minaccia.
Suor Valentina, se il Natale avvenisse oggi in questa terra, tra muri e droni, come sarebbe?
Gesù nascerebbe esattamente come 2000 anni fa: sotto un’occupazione, tra profughi e gente che non ha posto. Gesù non ha risolto il mondo con le battaglie di potenza, ma sconfiggendo l’inimicizia in se stesso. Questa è la sfida che vivo ogni giorno: creare uno spazio interiore dove la violenza dell'altro non generi una vendetta automatica. Bisogna stare "nel mezzo", nelle piaghe. Non è remissività, è la forza di essere disarmati. Gesù nascerebbe nel silenzio, un passo indietro, dove si vedono cose che chi sta sulla cresta dell'onda non vedrà mai.