
Nel giro di pochi giorni si sono intrecciati due momenti: il vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) a Tianjin e la parata del V-Day a Pechino. Qui, per la prima volta insieme in pubblico, Xi Jinping, Vladimir Putin e Kim Jong-un hanno condiviso palco e passerella. Il messaggio “di immagine” è semplice: esiste un’alternativa al primato USA, con la Cina al centro. La stampa occidentale ha parlato di “asse autoritario” riunito contro Washington, mentre le testate cinesi hanno raccontato una celebrazione della pace e una gigantesca messa in scena di mezzi e truppe, 10.000 militari, oltre 100 velivoli, sistemi ipersonici e laser.
Sul piano concreto, a Tianjin Xi ha usato la SCO per allargare l’agenda: miliardi in prestiti e aiuti, spinta per nuovi strumenti finanziari, standard tecnologici cinesi (satelliti, energia) proposti come alternativa al circuito occidentale. È la tattica di Xi: cucire interdipendenze economiche sotto un ombrello politico che Pechino chiama “nuova visione per la governance internazionale”. Perché conta? Perché accade mentre gli USA sono impantanati tra dazi globali, sanzioni a mosaico e una politica interna polarizzata; condizioni che – al netto delle intenzioni – finiscono per spingere Mosca e Pyongyang verso Pechino invece di isolarle. Come affermato dal Ministro degli esteri cinese «Il Grande Sud globale non è più la maggioranza silenziosa».
Non è una minaccia, è una conseguenza
Dire che quella foto “non è una minaccia ma una conseguenza” vuol dire che il problema non nasce dalla loro unione, bensì dalla credibilità erosa dell’ordine liberale. Da un lato Washington predica regole e multilateralismo, dall’altro moltiplica dazi e sanzioni; condanna alcuni crimini di guerra, tace o copre quando si tratta di Gaza, alimentando l’accusa di doppi standard su cui Pechino capitalizza (è il cuore del “Beijing consensus” come alternativa “responsabile” alla confusione occidentale).
Nello stesso tempo Trump, con la sua diplomazia personalistica, ha di fatto riabilitato Putin sul palcoscenico: nel giorno della parata gli invia “i più calorosi saluti” sul suo social Truth mentre denuncia un complotto contro gli USA. È un cortocircuito: Washington ufficialmente condanna la foto, ma una parte della sua politica l’ha normalizzata o legittimata. Lo stesso clima di decoupling tecnologico delle filiere che si respira è oggi fomentato ormai da entrambi i poli, e Pechino cavalca, ma non si può dimenticare il grande contributo dato dalla guerra economica avviata da Trump durante i suoi mandati.
Multipolarismo vs multilateralismo: perché non è una “guerra fredda 2.0”
In molti oggi descrivono questo contesto come una nuova guerra fredda, e lo stesso Xi accusa gli Usa di voler riportare quella mentalità, qui tuttavia, serve fare una chiarezza didattica: il Bipolarismo (la vera Guerra fredda) si configura con due blocchi, regole chiare di deterrenza, stabilità forzosa, equilibrio di potere. Il Multipolarismo invece guarda a tanti poli, interessi che si sovrappongono, alleanze fluide: è il sistema europeo prima del 1914, quello che – per fragilità – ha incubato due guerre mondiali. Oggi siamo multipolari, non in una nuova Guerra fredda. Confondere i due piani è un errore: il multipolarismo offre spazio di manovra a potenze regionali (Iran, Corea del Nord) e a potenze-piattaforma (Cina) che cambiano coalizione a dossier o che stanno con piedi in più scarpe come l’India. Il problema è che, mentre il multilateralismo dovrebbe disciplinare questo pluralismo, gli organismi che lo garantivano si sono inceppati.
Ed è qui che torna utile il libro di Matteo Meloni in uscita dal titolo “Geopolitica delle Nazioni Unite” pubblicato da Tralerighe: l’ONU è percepita come immobile e incapace di supportare i popoli del mondo; le aspettative riposte nelle Nazioni Unite si schiantano contro 80 anni di limiti strutturali e contro la crisi del multilateralismo, oggi fagocitato da veti e geopolitica a breve raggio che ricorda il fallimento della Lega delle Nazioni. «È sentimento comune, e forse umano, pensare che un’organizzazione come le Nazioni Unite possa in qualche modo agire per sistemare le situazioni di criticità. Tuttavia, questo non sempre è vero». Il Consiglio di Sicurezza ONU è infatti oggi bloccato, da una parte dal veto USA a Gaza e dall’altra in Ucraina dal veto russo a tutela della propria aggressione (entrambi con un’“ordine delle regole” a geometria variabile). Il risultato – come evidenzia Meloni nella diagnosi generale sull’ONU e sul declino del multilateralismo – è la sensazione di “incapacità di agire” proprio quando il sistema avrebbe più bisogno di funzionare.
Il blocco dei vecchi strumenti multilaterali e il tentativo di Pechino di crearne di nuovi
Non è solo l’ONU a essere paralizzato: tutto il sistema multilaterale ereditato dal dopoguerra mostra crepe. L’Organizzazione Mondiale del Commercio, nata per evitare guerre commerciali, oggi è svuotata, incapace di limitare i dazi americani o risolvere le dispute tra grandi potenze. La Corte Internazionale di Giustizia formalmente avrebbe gli strumenti per perseguire crimini di guerra, ma non può agire su leader di Stati protetti dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. In un mondo davvero multilaterale, Putin e Netanyahu sarebbero già arrestati dai mandati di cattura, e i dazi globali di Trump sarebbero illegittimi. L’architettura che reggeva la cooperazione (i fori economici, di sicurezza regionale e di controllo degli armamenti) è in affanno. In quello spazio entra Pechino con quattro cornici narrative: Global Development, Global Security, Global Civilization e ora una nuova proposta sulla “Global Governance” che unifica il messaggio: niente doppi standard nelle crisi.
Perché oggi guida Xi e non Putin
Una differenza rispetto a dieci anni fa: SCO e BRICS non sono più solo salotti diplomatici. A Tianjin Xi spinge per banca di sviluppo, standard tecnologici cinesi, reti energetiche convergenti: strumenti economici reali, non solo foto-op. Questo ha due effetti: Trasforma la SCO in piattaforma (prestiti, infrastrutture, satelliti, energia) dove Pechino detta la filiera; costringe Mosca – indebolita da sanzioni e dipendente da sbocchi energetici verso Est – a seguire la linea cinese, anche quando non coincide con le sue priorità. Prima dell’Ucraina, impossibile: la Russia avrebbe rivendicato pari leadership. Oggi la asimmetria è un fatto.
“Tre notizie, tre mondi”: come i media raccontano la stessa scena
Per Pechino (China Daily/Global Times): la parata è memoria e pace; Xi afferma che «l’umanità è di nuovo davanti a una scelta tra pace e guerra, dialogo o confronto, risultati win-win o giochi a somma zero», e i leader stranieri elogiano l’amicizia con la Cina. Nel SCMP di Hong Kong si riconosce la bella riuscita della parata e il valore simbolico, ma si evidenzia chiaramente che in Occidente la mossa non convince. In Occidente (CNN, The Economist, tabloid) si parla di “show di forza”, “partito anti-Americano”, “asse del male” “dittatori inquietanti” anche se per The Economist è piuttosto chiaro: «per vedere il costo del bullismo di Trump basta contare i leader che affollano Pechino».
L’albo d’oro dei leader presenti
La settimana cinese ha visto affluire un vero e proprio “parterre mondiale”. A Tianjin, per la SCO, hanno partecipato i leader delle repubbliche centroasiatiche ex-sovietiche, il premier indiano Narendra Modi, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, il premier pakistano Shahbaz Sharif, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, l’egiziano Mostafa Madbouly e il bielorusso Alexander Lukashenko. A questi si sono aggiunti i capi di quasi tutte le organizzazioni multilaterali, incluso il segretario generale ONU Antonio Guterres, segno che Pechino non è più percepita come “periferia diplomatica” ma come centro obbligato di incontro. Alla parata del 3 settembre a Pechino, invece, la platea è stata più selezionata ma ancora più simbolica: Putin, Kim Jong-un, il presidente iraniano e il generale birmano Min Aung Hlaing (accusato di genocidio), tutti leader sanzionati dall’Occidente. Qui il messaggio era: “se voi ci isolate, noi mostriamo al mondo di non essere soli”.
Cina-Russia: un’intesa tattica, non un’alleanza di acciaio
Tuttavia, mentre con facilità si vedono Russia e Cina come un unico blocco, c’è un punto che spesso sfugge: i due paesi non hanno un’alleanza militare strutturata come la NATO. Hanno partnership strategiche e unione di intenti su alcuni dossier (limitare la presa USA, riformare la governance economica), ma restano diffidenze storiche e interessi divergenti (asimmetria economica, Siberia/Artico, India). Proprio per questo la piattaforma SCO/BRICS “con motore” serve a Pechino: integrare Mosca in catene economico-tecnologiche dove la leva è cinese (finanza, tecnologia dual-use, energia). L’unica alleanza formale della Cina, infatti, è quella (storica) con Pyongyang; tutto il resto è interdipendenza gestita. La foto a tre vale come dissuasione politica più che come garanzia militare.
La Cina si riprende il mondo senza sparare (mentre gli altri si logorano)
Come già spiegato qui su Fanpage.it, la Cina non mira a “vincere le guerre”, mira a vincere nel mondo che le guerre lasciano. Lo fa con commercio, materie prime, infrastrutture, finanza – cioè con la “pace calda” (non guerra fredda) – e con una narrativa di stabilità: “chi sta con noi non combatte”. Qui si innesta la critica ai doppi standard: mentre l’Occidente invoca regole, tollera violazioni “amiche” (es. Gaza) e punisce i nemici (Russia). Pechino non deve convincere con ideologia: mostra la contraddizione e offre accesso a mercati, credito, energia. È soft power pragmatico. La Cina sta riconfigurando l’ordine globale con la pazienza indiretta del weiqi, il gioco di strategia orientale, non con l’approccio diretto degli scacchi occidentali. Tre casi lo dimostrano:
- Afghanistan: mentre gli USA spendevano 2.000 miliardi di dollari in vent’anni di guerra, Pechino investiva in miniere, infrastrutture e logistica, appropriandosi dello spazio lasciato dalla NATO senza un solo colpo di arma da fuoco.
- Hong Kong: nonostante le forti proteste represse è tornata alla Cina senza guerra, ma con un trattato firmato con gli inglesi nel 1997. Per Pechino è la prova che il tempo, la diplomazia e le leggi sulla sicurezza (a cui si stanno ispirando anche USA e Italia vietando le proteste) sono più efficaci delle armi.
- Taiwan: Xi per ora non sembra aver bisogno di un’invasione. Bastano logoramento, isolamento diplomatico, pressione economica e militare a bassa intensità. Intanto gli Stati Uniti si logorano tra Ucraina e Medio Oriente, mentre Pechino accumula tempo, forza e narrativa. Immaginate come Ucraina e Palestina possono influenzare la retorica di Xi partendo da un punto spesso ignorato: se l’Ucraina che è riconosciuta da tutti i paesi del mondo può essere invasa, se la Palestina che è riconosciuta da 140 nazioni può essere invasa e occupata, perché non potrebbe esserlo Taiwan che è riconsociuta da solo 12 paesi piccoli e poco influenti?
Il “fattore Trump”: riabilitazione di Putin e opportunità per Xi
La Cina non sta con nessuno per ideologia, né contro qualcuno per convinzione. Sta con se stessa. Il conflitto, se limitato, è funzionale: allontana gli americani dall’Asia, fa crollare la fiducia nei mediatori occidentali, apre spazi diplomatici che Pechino può riempire con la sua narrativa multipolare e “responsabile”. Gli anni di dazi globali e la retorica transazionale hanno alienato partner europei e asiatici, spingendo alcuni a sbilanciarsi verso Pechino. Sul dossier ucraino Trump ha trattato Putin come un interlocutore da riportare al tavolo. Risultato: Putin torna fotogenico accanto a Xi e Kim proprio mentre Washington bolla quell’incontro come minaccia. Per Pechino è perfetto: gli USA diventano prevedibilmente contraddittori; la Cina può proporsi come arbitro sobrio di un ordine post-occidentale (almeno agli occhi del Sud globale).
Cosa guardare adesso (in pratica)
Se la proposta cinese di “Global Governance” si traduce in meccanismi (fondi, standard, forum permanenti) che sostituiscono pezzi di ONU/WTO; lì passa l’egemonia del XXI secolo.Quanto SCO/BRICS (o La Via della Seta) diventano vincolanti (debito, energia, satelliti) – la traccia è stata disegnata a Tianjin.Come i media “ponte” (Hong Kong, Sud globale) normalizzano la narrativa cinese di pace/stabilità e riconoscono il valore pratico (crediti, infrastrutture) rispetto ai sermoni occidentali.Se la foto a tre resta dissuasione o evolve in coordinamento operativo (armi, tecnologia, sanzioni-proof). Ad oggi è soprattutto facciata potente con basi economiche reali, non un’alleanza militare rigida.
Doppi standard e revisionismi incrociati: esempi concreti
Anche la narrazione occidentale è dunque polarizzata: la Cina, che non muove guerre da decenni, viene definita “asse del male”; gli Stati Uniti, che hanno invaso Iraq e Afghanistan e oggi sostengono Israele nonostante le accuse di genocidio, sarebbero invece “l’asse del bene”. È una logica binaria, bianco/nero, come in un film Marvel: eroi e cattivi, senza sfumature.
Federico Rampini è un ottimo esempio: in questi giorni accusa Pechino di revisionismo storico per la narrazione della “Grande Guerra di Resistenza del Popolo cinese contro i giapponesi”. È vero: Pechino minimizza il ruolo americano e quello delle truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek. Ma anche l’Occidente è vittima del proprio revisionismo: esclude le guerre dell’oppio e i secoli di umiliazione nazionale degli europei in Cina e dimentica: che il conflitto per la Cina iniziò nel 1937 con l’invasione giapponese; che i giapponesi uccisero oltre 20 milioni di cinesi (mentre noi ricordiamo solamente una parte degli 8 milioni dell’olocausto nazista); che comunisti e nazionalisti cinesi combatterono insieme l’invasore; che l’Armata Rossa liberò Auschwitz e Berlino e che la guerra russo-giapponese non ha mai avuto un trattato di pace e non è mai realmente finita. Lo stesso vale per la Corea: si condanna il regime di Kim, ma si dimenticano i bombardamenti americani su Pyongyang durante la guerra di Corea che hanno consolidato la legittimità interna della dinastia anti-americana. In questo clima, ogni lato accusa l’altro di riscrivere la storia, mentre entrambi selezionano cosa ricordare e cosa dimenticare. Ma la storia insegna: la polarizzazione in un sistema multipolare è il preludio al conflitto globale.
Allo stesso modo, sempre Rampini parla della belligeranza di Pechino in Corea, in India e in Vietnam, quindi di fatti che vanno dai 50 ai 75 anni fa, come se il paragone reggesse con la totalità degli interventi americani in tutto il mondo dal dopoguerra a oggi (Sudamerica, Medio Oriente, Centro Asia e Sud Est Asiatico) e li si mischia a questioni di politica interna recenti, come Hong Kong, il Tibet o lo Xinjiang. A marzo 2021 infatti scriveva su La Repubblica in riferimento allo Xinjiang cinese che “il termine genocidio può descrivere l’annientamento di una cultura e di una religione” invece per il genocidio di Gaza (così definito da molti più storici e enti internazionali, tra cui gli stessi Israeliani come Bartov) lo ritiene un termino scorretto. Allo stesso modo si prevede il collasso del modello di Pechino come accadde per Tokyo, ignorando le enormi differenze strutturali tra le due nazioni, così come la guerra commerciale che gli Usa mossero contro il Giappone, portandolo verso il Plaza Accord e verso una stagnazione che dura dagli anni ’90. Un fatto anche questo che per i cinesi è stata una lezione da non dimenticare.
La triade Xi-Putin-Kim è l’effetto collaterale di un ordine che ha smarrito la coerenza: doppi standard nelle guerre, veto-paralisi nel Consiglio di Sicurezza, fori multilaterali inceppati, bullismo geopolitico. In quel vuoto, la Cina innesta quattro cornici (sviluppo, sicurezza, civiltà, governance) e motorizza SCO/BRICS con banche, energia e tecnologie. Non servono colpi di cannone: bastano contratti, standard e immagini. La minaccia non è la foto, il rischio è continuare a perderne il contesto. Se l’Occidente vuole davvero evitare la crescita del clima multipolare, deve tornare a far funzionare gli strumenti multilaterali con tutto ciò che essi comportano, anche se vanno contro i nostri interessi. Questo è l’unico modo per demolire la narrazione di Pechino con fatti concreti e non solo con una propaganda che trasuda enormi responsabilità e doppi standard che mettono da parte il diritto internazionale quando diventa scomodo.
