Il generale Battisti: “Gli USA vogliono che l’Europa si difenda da sola entro il 2027. Ma non siamo pronti”

Gli Stati Uniti hanno messo sul tavolo una richiesta senza precedenti: entro il 2027 l’Europa dovrebbe assumere il controllo della maggior parte delle capacità convenzionali della NATO, dall’intelligence alla difesa missilistica, con una riduzione significativa della presenza militare americana sul Vecchio Continente.
La scadenza è stata comunicata ieri da funzionari del Pentagono ai governi europei, con la prospettiva di un progressivo riassetto del ruolo statunitense nell’Alleanza Atlantica. Si tratta di un passaggio epocale, che mette in discussione l’architettura di sicurezza costruita dal dopoguerra a oggi. Secondo il generale Giorgio Battisti, ex comandante del Corpo d’Armata di Reazione Rapida della NATO in Italia, la richiesta ha una forte valenza politica: “Washington vuole che gli europei si assumano la responsabilità della propria sicurezza”, spiega a Fanpage.it.
Ma l’Europa paga la riduzione delle forze convenzionali avviata negli anni ’90 e non può sostituire in pochi anni le componenti più sofisticate dell’apparato USA, soprattutto intelligence e sorveglianza avanzata: “In due anni non si sostituiscono capacità costruite in decenni”, dice Battisti.
Generale, partiamo dalla notizia di ieri. Gli Stati Uniti chiedono che l’Europa assuma entro il 2027 la gran parte delle capacità convenzionali della NATO, dall’intelligence alla difesa missilistica. Come valuta questa richiesta?
La richiesta non nasce dal nulla. Donald Trump, già nel primo mandato e con maggiore insistenza in questo secondo, ha detto più volte che se l’Europa teme per la propria sicurezza, deve rafforzare le sue forze armate. Se l’Europa non lo fa, significa che non percepisce davvero una minaccia. È un messaggio ripetuto non solo dal presidente, ma dai suoi principali portavoce: Segretario di Stato, Segretario alla Difesa e altri membri dell’amministrazione.
Il primo segnale concreto in questo senso lo ha dato a fine ottobre, quando il governo rumeno ha fatto sapere che un contingente di circa 1.000 soldati americani schierati nel Paese non sarebbe stato avvicendato nei prossimi mesi. La notizia ha creato allarme, tanto che il Pentagono ha precisato che dal 2026 verrà avviata una revisione complessiva della presenza USA all’estero. Gli Stati Uniti dispongono oggi di circa 800 basi fuori dal territorio nazionale.
In parallelo Alexus G. Grynkewich – comandante del Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE) – ha confermato che una riduzione della presenza militare statunitense in Europa è prevista e che Washington "confida nelle capacità europee e canadesi" di fronteggiare eventuali minacce al continente.
Quindi la revisione della presenza USA è già in movimento?
Sì. Il Pentagono ha chiarito che non intende ritirarsi completamente dall’Europa, ma riportare le forze al livello pre-invasione dell’Ucraina. Oggi gli Stati Uniti hanno circa 100.000 militari in Europa; prima del 2022 erano 63.000, per decisione del presidente Obama. Se la riduzione avvenisse, sarebbe già un segnale concreto della volontà di "riequilibrare l’onere".
Il segnale forse più emblematico in questo senso è la disponibilità di Trump a cedere alla Germania il comando del SHAPE. È un incarico che dal 1949 è sempre stato statunitense: se Washington non vuole più un generale americano alla guida delle forze NATO in Europa, vuol dire che immagina un ridimensionamento strutturale della propria presenza.

Entriamo nella questione russa. Quanto è realistica la minaccia di Mosca nei confronti dell’Europa, considerando che in Ucraina – secondo molti osservatori – la Russia non è riuscita a prevalere in modo decisivo, assumendo il quasi quattro anni il controllo di una porzione di territorio non così vasta?
È una domanda legittima. Con le prestazioni militari dimostrate in Ucraina, la Russia non avrebbe né la capacità né le risorse per invadere e occupare l’Europa. La minaccia principale non è quella di un attacco convenzionale su larga scala.
Mosca usa invece la guerra ibrida: sabotaggi, droni, attacchi cyber, operazioni informative, disinformazione e propaganda. L’obiettivo non è conquistare territori ma dividere le società europee, minare la loro coesione e ridurre la volontà di reagire. La Russia trova sponde politiche e mediatiche nei vari Paesi europei, sfrutta personalità pubbliche e canali influenzabili e riesce a creare polarizzazione.
La dottrina militare russa attuale, la cosiddetta “dottrina Gerasimov”, prevede che nei conflitti moderni il rapporto tra azioni non militari e azioni militari sia quattro a uno. È ciò che vediamo: Mosca destabilizza gli avversari senza varcare fisicamente i confini. Il vero terreno di scontro è interno, sociale e psicologico. In Italia, ad esempio, un sondaggio Censis recente mostra che solo il 16% degli italiani sarebbe disposto a combattere per difendere i confini nazionali. Questo dato riflette già un indebolimento della resilienza interna nel nostro Paese.
In che modo l’Europa può riconfigurare in tempi così brevi strutture complesse come la NATO o le proprie forze armate, se la scadenza è il 2027?
È molto difficile. Dalla fine della Guerra fredda, cioè dal 1991, in quasi tutti i Paesi europei è venuta meno la percezione di una minaccia convenzionale. Le forze armate sono state ridotte radicalmente per motivi politici, economici e culturali, privilegiando missioni di pace con contingenti limitati.
L’esercito italiano, ad esempio, alla fine degli anni ’80 disponeva di circa 220.000 uomini; oggi sono 90.000. Il Regno Unito è sceso a 70.000. Sono eserciti “bonsai”, come alcuni analisti li definiscono.
Per recuperare capacità convenzionali servono tempo, bilanci pluriennali e filiere industriali che oggi non sono dimensionate per produrre grandi quantità di equipaggiamento moderno. Non basta stanziare fondi: carri armati, artiglierie, difesa aerea, sistemi di intelligence richiedono progettazione e industrializzazione. Solo per portare l’Italia a una capacità adeguata si parla di 10 anni di investimenti, non due. Lo stesso vale per altre componenti essenziali: sistemi satellitari, capacità ISR, interoperabilità dei comandi NATO. Non sono risorse che si sostituiscono in 24 mesi.
Alla luce di ciò, la scadenza del 2027 è praticabile?
Non realisticamente. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo. La scadenza, però, serve come leva politica: è un modo per forzare l’Europa ad assumersi responsabilità immediate e a riconoscere che l’ombrello americano non sarà eterno. L’Europa deve convincersi che la propria sicurezza non può dipendere strutturalmente da Washington.
Nel 2027 non sarà possibile sostituire le capacità americane più sofisticate, soprattutto quelle di intelligence, sorveglianza, ricognizione e difesa aerea. Sono funzioni che non si acquistano come fossero materiale commerciale. Tuttavia, la minaccia è credibile: gli Stati Uniti possono ridurre la presenza, riportarla ai livelli pre-Ucraina e chiedere agli europei di coprire la differenza.
Il segnale più forte è la disponibilità a cedere il comando del SHAPE alla Germania. Berlino è il Paese più reattivo: ha stanziato oltre 100 miliardi di euro e sta già acquistando sistemi avanzati, come i missili Arrow-3 israeliani. Altri Paesi, invece, sono ancora in piena discussione politica interna.
Esiste lo scenario di una provocazione russa per testare la coesione NATO?
Dal mio punto di vista è possibile. La Russia potrebbe tentare azioni molto limitate nei Paesi baltici, occupando pochi chilometri di territorio e fortificandosi. Sarebbe un modo per verificare se la NATO applica davvero l’articolo 5, cioè “tutti per uno, uno per tutti”. Non parliamo di una guerra di invasione, ma di un test politico: capire se i 32 Stati dell’Alleanza reagirebbero unitariamente oppure si aprirebbero a divisioni.