Caso Menendez, niente nuovo processo: i fratelli restano all’ergastolo per l’omicidio dei genitori

Non ci sarà alcun nuovo processo per Lyle ed Erik Menendez, i due fratelli che da oltre tre decenni scontano l’ergastolo per il brutale assassinio dei genitori, José e Kitty, avvenuto nella loro lussuosa villa di Beverly Hills nell’agosto del 1989. La decisione è arrivata da William C. Ryan, giudice della Corte Superiore di Los Angeles, che ha respinto la petizione di habeas corpus presentata dagli avvocati della difesa. Secondo il magistrato, i nuovi elementi portati in aula non sarebbero sufficienti a modificare l’esito del processo che nel 1996 condannò definitivamente i fratelli alla pena massima, senza possibilità di riduzioni.
La difesa aveva puntato molto su due prove inedite, ritenute decisive. La prima è una lettera scritta nel 1988 da Erik, allora appena diciottenne, a un cugino: in quelle righe il ragazzo confidava di subire ancora abusi sessuali da parte del padre, un dettaglio che, a detta degli avvocati, avrebbe dimostrato come la violenza non fosse un racconto costruito a posteriori ma una realtà vissuta nel tempo. La seconda è la testimonianza di Roy Rosselló, ex membro della celebre boy band portoricana Menudo, che ha accusato José Menendez di averlo violentato durante la sua carriera di manager nel mondo dello spettacolo. Due indizi che, uniti, avrebbero dovuto consolidare la tesi difensiva: i Menendez non agirono per avidità, bensì per liberarsi da un clima di terrore domestico e di soprusi ininterrotti.
Il giudice Ryan, però, ha liquidato entrambi gli elementi come "non sostanzialmente nuovi", sottolineando che già nei processi degli anni ’90 la giuria aveva ascoltato ampie testimonianze relative agli abusi. In quell’occasione, tuttavia, i giurati scelsero di credere alla versione della procura, secondo cui Lyle ed Erik, all’epoca ventunenne il primo e diciottenne il secondo, avevano pianificato l’omicidio per mettere le mani sull’immenso patrimonio di famiglia, valutato in decine di milioni di dollari. La condanna all’ergastolo senza condizionale sancì la fine della battaglia legale dei fratelli, anche se le polemiche non si sono mai sopite.
La decisione odierna rappresenta dunque un ulteriore duro colpo per i due uomini, che dopo più di 35 anni dietro le sbarre continuano a rivendicare la propria innocenza morale, se non giuridica. Già a fine agosto, infatti, un tribunale di sorveglianza aveva respinto la loro richiesta di libertà vigilata, ritenendo che non fossero pronti per un reinserimento nella società. La speranza di una riduzione della pena da ergastolo a cinquant’anni era anch’essa svanita.
La vicenda dei fratelli Menendez resta una delle più controverse della storia giudiziaria americana. L’immagine dei due giovani ricchi di Beverly Hills, in giacca e cravatta, seduti fianco a fianco nelle aule di tribunale e accusati di avere sterminato la propria famiglia, ha scosso l’opinione pubblica già negli anni ’90, alimentando un acceso dibattito su colpa, trauma e privilegi. Per molti osservatori, il caso non è mai stato soltanto un processo per omicidio, ma un racconto più ampio sulle ombre che possono nascondersi dietro la facciata scintillante delle famiglie di successo.

Negli ultimi anni, complice il revival mediatico, la storia dei Menendez è tornata al centro dell’attenzione. Documentari televisivi, podcast e, soprattutto, la recente serie prodotta da Netflix, hanno riacceso l’interesse del pubblico e delle nuove generazioni. Un interesse che si traduce spesso in simpatia verso i fratelli, considerati da alcuni come vittime di un padre autoritario e violento, e da altri come calcolatori spietati che hanno usato la scusa degli abusi per giustificare un crimine efferato.
Ora, con la nuova decisione del giudice Ryan, il destino di Lyle ed Erik Menendez – oggi rispettivamente 57 e 54 anni – sembra segnato: nessuna revisione del processo, nessuna possibilità di appello immediato e un futuro che resta confinato dietro le sbarre. Resta soltanto l’eco di una vicenda che continua a dividere e che, più di trent’anni dopo, non smette di suscitare domande irrisolte sul confine tra giustizia, verità e memoria collettiva.