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A un passo dalla guerra totale, è tempo di finirla con la politica da stadio

A un passo dalla guerra totale, con il Grande Medio Oriente in fiamme, l’occidente in crisi e il resto del mondo vessato dalla miseria e dallo sfruttamento, forse è il tempo di riconoscere che siamo un’unica specie e che sarebbe ora di evolvere e cooperare. Utopia? No, matematica.
A cura di Anna Coluccino
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tempo di finirla con politica da stadio

La Turchia ha ripreso la sua decennale lotta in Kurdistan contro il PKK, lotta che – dall'inizio del 2012 – ha già provocato seicento morti. La Palestina è costantemente sotto assedio e, solo nell'ultimo anno, sono morte decine e decine di persone che vanno ad aggiungersi alle migliaia massacrate da decenni di conflitto. L'Iran, in via di completamento del suo programma nucleare, è vicinissima alla guerra con Israele che ha già preannunciato l'intenzione di voler bombardare le centrali iraniane, tanto che – preventivamente – navi da guerra britanniche e statunitensi si sono già appostate nel Golfo Persico. La Siria è devastata dalla guerra civile tra i lealisti di Bashar al-Assad e i ribelli, guerra che – ad oggi – ha provocato oltre venticinquemila vittime. Iraq, Egitto, Yemen – e volendo ampliare l'area mediorientale a quella identificata geopoliticamente come Grande Medio Oriente – Libia, Sudan, Libano, Afghanistan e Pakistan sono in sommossa per l'uscita del film e delle vignette blasfeme su Maometto, sommossa che ha già fatto diverse vittime. La Somalia continua ad essere dilaniata da una guerra civile che – sebbene ad intermittenza – è cominciata intorno alla fine degli anni '70 e non accenna a finire. Per non parlare poi dei continui e violenti colpi di coda che l'esportazione della democrazia statunitense continua a provocare in Iraq e Afghanistan. (Condiamo il tutto con l'inarrestabili crisi economica che ha colpito l'occidente e l'inimmaginabile miseria patita da un buon quarto del pianeta e avremo un'immagine ancora sfocata della gravità delle condizioni in cui la specie umana – attualmente – versa).

In buona sostanza, siamo tremendamente vicini a alla guerra totale. Infatti, per quanto le ragioni che determinano l'insorgere del panico in ciascuno di questi paesi siano apparentemente diverse e distanti, c'è qualcosa che li mette tutti d'accordo, dal primo all'ultimo: l'odio per l'occidente; un odio seminato e nutrito da decenni di propaganda e intromissioni dirette (in molti casi violente) nella politica nazionale di ciascuna di queste nazioni da parte del democratico ovest. L'attacco all'integralismo islamico – per quanto pretestuoso – si è trasformato in una guerra di religione, accecando completamente i contendenti e rafforzando l'integralismo anziché scardinarlo. Del resto, quale modo migliore di aizzare anche gli animi più moderati se non offendendo (militarmente, politicamente, retoricamente, filosoficamente) una cultura? Tutto questo dimostra ancora una volta – casomai ce ne fosse stato bisogno –  che nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esportare democrazia e civilità, specie quando  nessuno dei difensori a oltranza del modello occidentale ne possiede in avanzo, anzi.

Se a tutto questo si aggiungono – poi – le convenienze economiche che sottendono a qualunque conflitto sul pianeta, il quadro è più o meno completo. Ma cosa c'è dietro a quelle convenienze economiche? Nient'altro che il tentativo di assicurare alla propria squadra, al proprio clan un tempo di sopravvivenza più lungo, a scapito della sopravvivenza altrui. Ogni nazione, ogni clan si è convinto di poter sopravvivere solo previo sterminio – o sottomissione – di un altro clan. Tutto il progresso tecnologico di cui beneficiamo – anche a livello civile – si è attivato per presunte necessità militari che si fondano sul semplice principio – mai messo realmente in discussione – che esistano esseri umani di serie A ed esseri umani di serie B (quelli di serie A appartengono al nostro clan, quelli di serie B all'altro clan) e che – quindi – alcuni meritino di vivere di più e meglio di altri perché più bravi, più buoni, più civili. È come se si fosse radicata in ciascuno la convinzione che gli altri esistano al solo scopo di intralciare la nostra strada e che – in fondo – non abbiano una vita e delle motivazioni proprie, o se le hanno sono tutto sommato trascurabili, meno importanti delle nostre.

Evoluzionisticamente, è forse arrivato il tempo di mettere in discussione alcune delle credenze che pensiamo essere verità certa giacché – finora – non pare abbiano funzionato granché. D'altronde, la scienza insegna che è il dubbio a determinare il progresso non la fede, non la reiterazione, non il costante ripetersi dei medesimi schemi. L'indiscutibile presupposto del mors tua vita mea che ci ha animato fino ad oggi andrebbe messo da parte, perché si tratta di una fesseria e – ammesso che non lo sia – cambiare prospettiva male non fa. Il nuovo principio a cui potremmo affidarci potrebbe essere, ad esempio: mors tua, mors mea. Giacché non esiste morte capace di regalare vita. Il tempo può solo essere prolungato, ma – forse – menti capaci di creare quel che gli esseri umani hanno creato nell'ultimo secolo (spinti dalla necessità di "vincere" un qualche conflitto, personale o collettivo) potrebbero cominciare a pensare a come prolungare e migliorare l'esistenza di ognuno senza che si renda necessario il genocidio del clan rivale. Sarebbe un tentativo nuovo, come lo fu – al tempo – cominciare a dubitare che la terra fosse piatta o che l'Olimpo fosse abitato da divinità immortali.

È tempo di finirla con la politica da stadio. È tempo di finirla con la guerra tra bande. Siamo esseri umani adulti, è tempo di comportarsi come tali. Siamo una specie che ama considerarsi evoluta, e le nostre tecnologie ne sarebbero la prova se solo i nostri meccanismi mentali non ci collocassero nella fase anale: continuiamo a defecare in luoghi inopportuni, ma intanto costruiamo strumenti capaci di tutto tranne che di pacificare l'esistente. È tempo di imparare a farla nel vaso, di evolvere come individui e come specie. Perché – per quanto suoni retorico – siamo sì soli, siamo sì unici, ma lo siamo tutti, e siamo mossi dai medesimi bisogni.

La vita non è un campionato di calcio e gli esseri umani non possono più credere di appartenere a una singola squadra, a una singola città, a una nazione, a un continente. Appartengono al pianeta, alla razza umana e poi – infine e prima di tutto – a loro stessi, in quanto esseri umani. È tempo di finirla con la storia che i gialli sono meglio dei verdi, i blu meglio dei neri. È da un pezzo ormai che in confini nazionali non sono che una formalità, anche se – spesso – per quella formalità ci si stermina senza pietà. Quello che mangiamo viene dal Sud America, i giocattoli che usiamo ogni giorno sono fatti in Cina, quello che indossiamo viene dalla Thailandia, i sistemi informatici dall’India, il crollo di una banca negli Stati Uniti provoca un collasso mondiale, un accordo siglato in Medio Oriente ha ripercussioni concrete e tangibili in tutto il mondo, a partire dal prezzo del petrolio per finire con ripercussioni sociologiche che non siamo in grado di riconoscere perché – intanto – stiamo scandendo un qualche slogan utile a ricordarci che siamo migliori degli altri.

La politica da stadio immiserisce tutti e ci configura come ridicoli principianti della vita. Esseri così poco sviluppati da aver saputo tracciare la via per lo spazio infinito e non quella che porta al vicino di casa; così concentrati a santificare i giganteschi mondi che abitano nelle nostre teste da non essere più in grado di vedere l'enorme tsunami che abbiamo generato e che – presto o tardi – si abbatterà su tutti, magari nel bel mezzo delle nostre infantili risse da stadio. Abbiamo provocato un numero di danni inimmaginabili e ogni secondo ci massacriamo a vicenda in nome di qualcosa o qualcuno credendo ancora che la nostra misera partitella di quartiere abbia una qualche senso sul piano esistenziale, filosofico ma – soprattutto – politico. La vita non dovrebbe essere giocata contro, ma con, giacché alla fine – comunque vada – la perdiamo tutti la partita, ognuno nella propria solitudine mortale. Eppure siamo esseri così poco lungimiranti, così poco logici, così poco svegli, così poco evoluti da credere che le nostre partitelle siano davvero più importante di tutto il resto.

È tempo di finirla con la politica da stadio e di accettare che la vita sia un gioco complesso e che se giochiamo tutti in un'unica squadra – come specie – contro la scarsità di risorse, contro le catastrofi naturali, contro i limiti umani, contro tutti i pericoli che aleggiano sulle nostre teste, le possibilità di vincere sono enormemente maggiori. Non si tratta di utopia: è matematica, logica ferrea, ragionamento; è un sillogismo elementare. Talmente elementare da essere ineluttabile. Prima o poi è esattamente a questo che arriveremo. Ma – oggi – abbiamo l'occasione di compiere un passo cosciente verso l'evoluzione invece che venir spinti a compierlo (dopo aver danneggiato tutto il danneggiabile) dalla necessità, dall'incontrovertibilità delle contingenze. Quand'è che smetteremo di giocare ognuno per sé, tireremo il fiato e apriremo gli occhi? In un mondo globalizzato dove gli avvenimenti che coinvolgono il più sperduto angolo di pianeta non sono più un mistero per nessuno, chi ancora parla a nome di una fazione non è che un bambino, un essere umano bambino che continua a farla fuori dal vaso perché non ha ancora imparato che se usa la tazza poi non deve convivere con la puzza.

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