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Opinioni

Italia, senza uno shock culturale sempre più aziende finiranno in mani estere

Ansaldo parlerà giapponese, Pirelli cinese, Telecom Italia ha sempre più l’accento francese: se l’Italia non riuscirà a ritrovare la sua passione per l’innovazione e il rischio l’elenco di marchi e anziende cedute si allungherà sempre di più…
A cura di Luca Spoldi
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Italia in vendita? Se guardiamo a Piazza Affari si direbbe di sì: solo oggi Finmeccanica ha confermato di avere “positivamente concluso, insieme ad Hitachi, le attività, e le relative intese, di definitiva verifica in ordine al soddisfacimento delle condizioni contrattuali sia relative ad Ansaldo Sts sia ad AnsaldoBreda” e di poter pertanto procedere anche al closing dell’operazione di cessione della propria partecipazione, pari al 40% circa, in Ansaldo Sts nell’ambito “della valorizzazione del settore trasporti” come già deciso dall’accordo raggiunto lo scorso febbraio che aveva valutato Ansaldo Sts 773 milioni di euro (9,65 euro per azione, rispetto ai 9,675 euro di stasera) e AnsaldoBreda 36 milioni più debiti.

Sempre oggi Pirelli ha annunciato l’addio a Piazza Affari dopo un secolo di presenza ininterrotta sul listino azionario italiano. L’Opa lanciata da Marco Polo, veicolo finanziario di ChemChina partecipato dalla Camfin di Marco Tronchetti Provera (affiancato da Intesa Sanpaolo, Unicredit e dai russi di Rosneft), ha raggiunto il 95,97% dei titoli ordinari (considerando le azioni proprie la società il 96,04%) e pertanto la stessa Marco Polo eserciterà il diritto di acquisto sulle azioni residue allo stesso prezzo dell’Opa (15 euro per azione, delistando il titolo a partire dal 6 novembre.

Qualche analista si è detto deluso dell’esito dell’offerta, preannunciando un possibile ritorno nell’arco di un triennio, a prezzi superiori a quelli dell’Opa, del nuovo soggetto che nascerà dall’integrazione della stessa Pirelli con le attività che ChemChina controlla nel settore dei pneumatici (Aeolus) ed eventuali altri asset che dovessero essere acquisiti: si vedrà, per ora l’unica cosa certa è che, come per Breda, un marchio storico dell’industria “pesante” italiana cesserà di parlare italiano. Una prospettiva che presto potrebbe toccare anche all’ex monopolista telefonico italiano.

Telecom Italia ha infatti visto nell’arco di pochi giorni raddoppiare la presenza di soci francesi nel suo capitale: al finanziere bretone Vincent Bolloré, amico dell’ex presidente Nicolas Sarkozy ma in buoni rapporti anche con Silvio Berlusconi, da anni nel “salotto buono” di Mediobanca (di cui è secondo socio col 5% di capitale subito dietro Unicredit, che di Piazzetta Cuccia conserva un 8,7%), già socio al 20,1% e desideroso di incrementare ulteriormente la sua quota sino a sfiorare, probabilmente, il 25% (limite oltre il quale scatterebbe l’obbligo di Opa), si è affiancato Xavier Niel, patron di Iliad (che in Francia è il secondo internet provider e terzo gestore mobile) e tra i proprietari di Le Monde, salito in pochi giorni ad una “posizione lunga complessiva” superiore al 15,1%.

Per la verità Niel pur acquisendo i diritti di voto non sembra aver sborsato molti quattrini sinora, visto che ha costruito la sua posizione attraverso l’acquisto di una serie di opzioni “call” che gli danno la possibilità (ma non obbligano) di acquistare una serie di pacchetti di azioni da adesso ad una serie di scadenze che vanno tra il giugno 2016 e il giugno 2017. Silenzioso per ora il governo, che pure puntava a coinvolgere Telecom Italia nel progetto di rinnovamento delle infrastrutture di rete secondo uno schema che all’investimento di CdP (tramite Metroweb, controllata dal Fondo strategico italiano e dal fondo infrastrutturale F2i) nella banda larga voleva far seguire il conferimento della stessa infrastruttura all’ex monopolista telefonico italiano in cambio di una partecipazione di CdP al capitale.

L’eventualità che Niel (e forse lo stesso Bolloré) siano solo degli utili (e verosimilmente ben remunerati) “assuntori di rischio” per uno stesso (o forse due differenti) “prenditore finale” rischia ora di mettere un grosso punto interrogativo su tutta l’operazione. Sullo sfondo proseguono le trattative tra la famiglia Pininfarina e gli indiani di Mahindra & Mahindra per il passaggio del controllo del celebre carrozziere italiano. Ancora più defilata, ma comunque presente, resta l’ipotesi che una volta scorporata Ferrari, il gruppo Fiat Chrisler Automobiles proceda a valorizzare quanto più possibile i rimanenti asset (a partire da Maserati, Alfa Romeo e Jeep) per poi “convolare a giuste nozze” con qualche altro grande produttore mondiale, nell’ambito di quella “ineluttabile” necessità di integrazione dettata da una sovracapacità produttiva che Sergio Marchionne ha più volte sottolineato.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, declinandosi per settori, aree geografiche e dimensioni societaria, ma un unico filo rosso sembra emergere: l’Italia ha smarrito la sua capacità di investire in innovazione e se non la ritroverà dovrà rassegnarsi a veder vendute al miglior offerente aziende, marchi e tecnologie sempre più mature. Di per sé la cessione del controllo non è un male, se il paese riesce a reinvestire le risorse così ottenute in nuove attività e know-how, se questo non avviene è per contro a rischio il futuro stesso dell’Italia e dei lavoratori italiani (che a giudicare dagli ultimi dati Istat non possono festeggiare troppo, visto che la ripresina di questi ultimi trimestri si conferma incapace di ridurre il numero di inoccupati e che accanto al calo dei disoccupati cala anche quello degli occupati).

Quanto alla reale capacità del paese di investire in innovazione, i dubbi sono legittimi: secondo Serena Torielli, Founder e Ceo di AdviseOnly, “nonostante tutte le possibili misure già intraprese e da intraprendere per creare un ecosistema per l’innovazione, sarà difficile rendere l’Italia un paese davvero innovativo in assenza di un reale shock culturale”. Condivido l’opinione della Torielli, visto che nonostante segnali positivi come le 4.704 startup innovative registrate in Italia solo nel terzo trimestre di quest’anno il gap tra avere una bella idea e riuscire a dare vita a una sana e profittevole azienda resta ampio (la mortalità tra le startup è attorno al 70%). Ma come cambiare passo?

Servirebbero finanziamenti “non tanto pubblici quanto dal sistema privato che vede nei fondi di venture capital lo strumento principe per il finanziamento delle startup” spiega Torielli, notando come il venture capital in Italia sia pari allo 0,002% del Pil (contro una media europea pari allo 0,024%, ossia oltre 10 volte tanto). Ma servirebbe soprattutto che si diffondesse la cultura dell’investimento a rischio: tuttora, infatti, il 60% della ricchezza delle famiglie italiane è collocata in attività reali (terreni e immobili, “la roba” per dirla come i Malavoglia del Verga) e di quel 40% di ricchezza investito in attività finanziarie un 31% è composto, anche per finalità prudenziali, da contante, depositi e risparmio postale e solo il 18% è investito in azioni (contro il 50% negli Usa).

L’Italia di oggi è un paese dominato dalla paura, dove non si prendono rischi, si preferisce scommette solo sul sicuro “in maniera furbesca, o attraverso meccanismi relazionali della cerchia di amici”. Alla fine, nota Torialli, gli innovatori italiani restano “isolati in un mondo che cerca di perpetrare sé stesso e i propri privilegi, su cui vari gruppi e gruppetti corporativi sono arroccati”, il fallimento equivale a una condanna sociale a vita. O tutto questo cambierà o ci si dovrà rassegnare a veder venduti ancora molti altri marchi e molte altre aziende.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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