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Opinioni

Gli Usa creano 215 mila nuovi posti di lavoro in luglio

Negli Usa solo in luglio sono stati creati altri 215 mila nuovi posti di lavoro (dopo i 230 mila creati in giugno). Così la Federal Reserve si prepara ad alzare i tassi. In Italia dobbiamo sperare che la Bce mantenga i tassi bassi e parta il piano per la banda larga…
A cura di Luca Spoldi
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Gli Stati Uniti d’America creano altri 215 mila nuovi posti di lavoro in luglio, dopo i 230 mila (dato rivisto al rialzo) di giugno e il mercato capisce che, pur con tutta la pazienza del mondo, la Federal Reserve si prepara ad alzare i tassi (probabilmente solo di un quarto di punto) nella prossima riunione del 16 e 17 settembre. Ma le paghe orarie restano stabili, così come il tasso di disoccupazione (5,3%, sui minimi degli ultimi 7 anni, vale a dire dalla crisi mondiale del 2008), sicché i titoli del Tesoro americano non solo non perdono colpi, come fanno usualmente i titoli a reddito fisso quando si prospetta un futuro aumento di tassi, ma recuperano leggermente terreno, perché di inflazione non se ne vede in giro e quindi i banchieri centrali americani potranno procedere molto gradualmente nella loro “normalizzazione” della politica monetaria.

In Europa la musica è destinata a rimanere a lungo molto diversa: negli ultimi giorni fa la Bce prima e la Bank of England poi hanno fatto capire che di inflazione non se ne parlerà almeno per un altro anno, che la ripresa (salda in Inghilterra, molto meno nell’area dell’euro, dove anzi la produzione industriale sia in Francia sia in Germania è apparsa a sorpresa in calo a giugno) non è e non sarà così esuberante da dover far rialzare brutalmente i tassi, che il quantitative easing voluto da Mario Draghi proseguirà senza problemi fino almeno alla scadenza naturale, fissata per il settembre del prossimo anno. Chi ha ragione allora, la Federal Reserve che alza i tassi o la Bce (e probabilmente la Bank of England) che non sembrano intenzionata a imitarla tanto presto?

In realtà ancora una volta le banche centrali si trovano a dover supplire alla politica creando le condizioni perché la ripresa si consolidi ed estenda il più a lungo possibile (negli Usa e in Gran Bretagna) ovvero vada oltre la forma evanescente e fortemente dipendente dalla ripresa mondiale (come in Europa, specie nel Sud del vecchio continente), a sua volta alquanto aleatoria se è vero come è vero che in Cina si sta facendo di tutto per evitare lo scoppio “indesiderato” della bolla speculativa presente sui mercati (lasciar scendere un poco le quotazioni evita eccessi ed “esuberanze irrazionali”, ma un crollo avrebbe un effetto depressivo su consumi e investimenti) mentre in Giappone si cerca, da anni, di animare più o meno artificialmente una crescita che per tutta una serie di motivi, demografici e non, resta inferiore alle attese di analisti e politici.

Chi accusa le banche centrali di “drogare” i mercati lo fa probabilmente in buona fede ed ha ragione nella misura in cui senza gli interventi di questi anni le borse avrebbero potuto “liberamente” far fallire decine di società, banche e assicurazioni che l’intervento degli stati e la politica monetaria (con tassi d’interesse pari o sotto lo zero in termini reali) ha evitato. In cambio, il tempo “guadagnato” dalle banche centrali è stato usato, in qualche caso, per varare riforme strutturali o per dare modo e tempo alle aziende di ristrutturarsi, in qualche altro caso per cercare di mantenere il più a lungo possibile lo “status quo”.

Dove si è scelta quest’ultima strada la disoccupazione generale è forse salita meno di quello che si sarebbe visto diversamente, ma la forza lavoro si è andata sempre più concentrando su fasce di lavoratori anziani, specie nel settore pubblico (visto che non potendo assumere nuovo personale, né essendo facile ridurlo, si è scelta la strada del blocco del turnover), con conseguenze nefaste per l'occupazione giovanile. Ora da più parti, specie in Italia (dove a fine giugno era disoccupato il 44,2% dei giovani in cerca di lavoro contro il 12,7% del dato medio italiano), si chiede di innovare, di  avere fantasia, coraggio, spirito d’iniziativa e d’impresa.

Si chiede di aprirsi al confronto con concorrenti internazionali, ma si dimentica di dire che tali concorrenti possono godere, da anni, di sistemi paesi più funzionali e più floridi (come in Francia o in Germania, oltre che in Gran Bretagna). Il premier Matteo Renzi lancia continuamente nuove “sfide”, ultima quella della banda ultralarga, e promette nuovi investimenti. Ma per ora non dice, banalmente, da dove saranno reperite le necessarie risorse (7 miliardi di euro di investimenti pubblici su 12 miliardi complessivi previsti nei prossimi tre anni).

Non vorrei fosse come l’annunciata riduzione della pressione fiscale, che vedrà a settembre iniziare i lavori di studio per essere poi inizialmente inserita nella Legge di Stabilità (ma di tagli all’Irpef non se ne parlerà, pare, sino al 2018). “L’America è lontana, dall’altra parte della Luna” cantava Lucio Dalla: visti i numeri concreti e le promesse vaghe che ancora caratterizzano i primi rispetto all’Italia, nonostante il varo di riforme come il Jobs Act, sembrerebbe che la prospettiva non sia così tanto cambiata in questi anni, nonostante la promessa (appunto) rottamazione della “vecchia” politica e, almeno in teoria, del “vecchio” modello di capitalismo familiare italiano, ricco di relazioni e capacità narrativa ma cronicamente carente di capitali per sostenere le buone idee.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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