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Deserto a Syntagma – Riflessioni sulla “Nuova resistenza greca”

24 e 25 marzo dovevano essere i giorni in cui la protesta massiccia degli ateniesi avrebbe dovuto riconquistare le strade, ma la presenza di 8000 poliziotti e le misure anti-protesta messe in atto dal “Ministero per la protezione del cittadino” hanno paralizzato la capitale. Il “primato della resistenza” stavolta spetta a Creta, a Salonicco, a Patrasso, a Larissa, dove in molti casi le parate di celebrazioni sono state cancellate per la prima volta nella storia in virtù della presenza massiccia di manifestanti e degli scontri con la polizia.
A cura di Anna Coluccino
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25 marzo 2012 atene

Erano settimane che chiunque incontrassi nelle strade di Atene, di Iraklion, di Rethymno mi diceva "il 24 e il 25 marzo la Grecia si mobiliterà". Per giorni su Internet è andato avanti un tam tam di notizie che descriveva l'apocalittico scenario di una capitale assediata da ottomila poliziotti, con cecchini appostati sui palazzi di piazza Syntagma e unità antisommossa equipaggiate con lacrimogeni e gas al pepe. Alcune persone mi suggeriscono di comprare del "Riopan" per proteggere gli occhi e la bocca dai lacrimogeni (illegali) che i poliziotti greci lanciano come si trattasse di innocenti palloncini ad elio, altri si raccomandano "stai attenta, la polizia non ama i giornalisti, non portarti la telecamera, guardati le spalle". Tutto – insomma – lasciava intendere che la popolazione greca si aspettasse una sommossa paragonabile a quelle che hanno agitato la città nello scorso mese di febbraio e che probabilmente scoppieranno anche il prossimo giugno, al varo delle nuove misure di austerity. Ciononostante, allo scattare dell'ora "x", le profezie si avverano solo in parte. La mattina del 24 marzo mi sveglio decisa a seguire gli eventi a pochi passi dagli scontri, senza timore, con il solo desiderio di raccontare quella che ormai tutti qui chiamano la nuova resistenza greca. Non voglio arretrare, ho il diritto di raccontare, ho il dovere di "dire" e – intanto – manifestare la mia solidarietà alle molte persone che – in queste lunghe settimane – hanno condiviso con me tutto il poco che possedevano, mi hanno accolta, aiutata, mi hanno aperto la porta sulle loro tragedie e mostrato i mille modi che hanno trovato per reagire, per continuare a vivere senza perdere il sorriso, senza cedere alla xenofobia, senza farsi incantare dalle false promesse di ripresa economica.

Sulla strada che da Kypseli, il quartiere dove alloggio, porta a piazza Syntagma, dove ha sede il parlamento greco, il clima di tensione è così evidente da aver quasi cancellato la presenza umana dalle strade. Mentre il trolley che porta alla manifestazione si avvicina ai luoghi centrali della battaglia appare evidente che i pronostici sulla presenza della polizia si mostrano fin troppo ottimisti. I reparti antisommossa occupano ogni angolo, la polizia ordinaria è schierata in difesa della parata degli studenti a cui – il giorno successivo – si sostituirà la parata dei militari; entrambe organizzate, come ogni anno, per celebrare l'inizio della rivoluzione contro l'oppressore turco. Eppure pochi sembrano capaci di chiedersi chi sia, oggi, l'oppressore del popolo greco. Pochi sembrano riuscire a collegare il ricordo dei martiri di guerra di cui piangono la scomparsa a quanto accade oggi. Nella notte, i dipendenti delle varie municipalità hanno svuotato dei frutti i moltissimi alberi di arance selvatiche che affollano Atene, tutto per evitare che i cittadini se ne servano per "attaccare" le forze di polizia. Lungo tutto il percorso della parata sono state posizionate transenne annodate da cordoni d'acciaio – ed è la prima volta che accade nella storia della città – per evitare l'invasione delle strade e il blocco del corteo degli studenti in uniforme. Nei pressi di Syntagma i manifestanti si mescolano a quanti sono in strada per osservare, plaudenti, la sfilata, i momenti di tensione con la polizia scattano immediatamente e sfociano nell'arresto di 40 persone (professori, studenti, gente comune) che verranno rilasciate dopo poche ore senza nessuna conseguenza: nessun'accusa pende sulle loro teste. E allora perché sono stati portati in questura? Con quali motivazioni?

Il modus operandi della polizia è chiarissimo e – alla fine – si rivelerà più che efficace: piazza Syntagma è blindata, viene impedito l'accesso al punto di raccolta dei vari cortei di protesta, tre stazioni della metropolitana (Monastiraki, Syntagma e Acropoli) sono state chiuse, ogni corteo viene spaccato dall'arrivo dei reparti antisommossa che circondano i manifestanti, li tengono in ostaggio per qualche minuto impedendo di muovere passi avanti o indietro e poi li lasciano andare per qualche centinaio di metro ancora, continuando a seguirli. Io stessa mi sono vista "sequestrare" per diversi minuti, e quando ho chiesto di uscire dal cordone mi è stato risposto che non potevo, che dovevo restare dentro e – per rendere l'ordine il più chiaro  possibile – mi ci hanno spinta dentro a forza. Lo scopo era evidente: alimentare la paura, produrre isolamento, e – così – indebolire la partecipazione, sfiancare i manifestanti, lasciare che i gruppi si sfaldassero per sfinimento, senza dover ricorrere alla violenza. Ma non tutti i poliziotti riescono a ignorare impassibili le urla di chi chiede che venga rispettato il suo diritto al dissenso, di chi preme per passare, di chi urla loro in faccia il proprio sdegno, il proprio odio, il proprio disprezzo per un'uniforme che viene utilizzata per proteggere i politici e non il popolo. Stavolta, però, tra i manifestanti non si vedono volti incappucciati né maschere antigas: si tratta di vecchi, donne, ragazzini, professori e studenti. Vola qualche calcio, qualche manganellata, qualche sedia viene lanciata all'indirizzo dei reparti antisommossa, ma si tratta di piccole scaramucce, è evidente come l'ordine ricevuto dai poliziotti sia quello di impedire lo svolgersi dei cortei evitando di usare violenza. La presenza di giornalisti è massiccia e nessuno vuole essere – più – immortalato nell'atto di pestare i manifestanti. Lo slogan più urlato del 24 marzo ricalca – in parte – quello che ha caratterizzato la rivolta del Politecnico di Atene negli ultimi anni della dittatura dei colonnelli – la Junta: "Ψωμί, Παιδεία, Ελευθερία. Η Χούντα δεν τελείωσε το 73" ovvero "Pane, educazione e libertà, la giunta non è finita nel 1973". Un attacco diretto alla polizia che, sempre più, viene vista come strumento del potere per ammutolire quanti non intendono sottostare ai dictat della Troika.

La manifestazione si conclude dopo poche ore. Con l'aiuto di un amico greco raggiungo la questura in cui sono stati portati quaranta manifestanti a caso per non si sa quale ragione. Molte persone sostano lì di fronte, per esprimere solidarietà agli amici arrestati. Dopo due ore sono tutti liberi, e perciò decido di recarmi ad un'altra manifestazione, quella per i diritti degli emigranti, prevista per il tardo pomeriggio. Il clima è di festa, il corteo scorre libero, scortato da tre poliziotti semplici e nessun altro, l'unico timore che serpeggia tra i partecipanti è quello di un attacco dell'estrema destra. Ma nulla accade, e dopo aver camminato versa piazza Syntagma (costantemente presidiata da due lunghe file di poliziotti dei reparti antisommossa) i manifestanti si sciolgono ordinatamente e tutti tornano a casa. Ciononostante, gli amici continuano a ripetermi "domani vedrai", "i manifestanti si riuniranno nei quartieri e marceranno insieme alla volta di Syntagma, saranno migliaia". Invece, il giorno dopo, il 25 marzo, la situazione pare completamente surreale. La navigazione protetta in rete è impossibile, migliaia i poliziotti, pochissimi i cortei, nessuno scontro. Tutto si esaurisce in brevissimo tempo, Atene – stavolta – non è riuscita a mettere in piazza la propria protesta: la paura, la presenza spropositata dei reparti speciali, il rifiuto da parte di tutti i principali partiti (compresi KKE e Syriza) di partecipare alla manifestazione  ha seriamente condizionato la riuscita del "grande giorno" che tutti aspettavano e che non è arrivato. Non ad Atene, almeno. Patrasso, Larissa, Salonicco, Creta, sono stati questi – stavolta – i centri pulsanti della protesta. Ad Iraklion, per la prima volta nella storia, i manifestanti hanno impedito lo svolgersi della parata ed hanno ingaggiato una lotta con la polizia che ha risposto a suon di lacrimogeni e gas al pepe. Decine gli arresti in molte città della Grecia che, dopo aver lasciato ad Atene il primato della resistenza (almeno a livello mediatico…), ora tentano di far sentire la loro presenza nel tentativo di riaccendere la protesta e nella speranza che la paura, la pigrizia, l'indolenza, l'indifferenza non finiscano con l'assopire il sentimento di riscatto che ancora anima buona parte della popolazione.

Ma questo rischio non sembra preoccupare gli attivisti: a giugno, al varo delle nuove misure "anti-crisi" tutti sembrano essere convinti che la partecipazione alle manifestazione aumenterà esponenzialmente, costringendo il governo – o chi per esso – a confrontarsi con i desideri, i bisogni di un popolo stanco di vedere i propri interessi sottomessi a quelli della grande finanza mondiale. Io, intanto, torno a casa, con il "Riopan" in tasca, incerta su cosa dire, come raccontare, cosa pensare di quanto ho visto e provato. Ogni giorno ad Atene va in scena una protesta, spesso anche due, tre contemporaneamente. Ogni giorno accade qualcosa: solidarietà, eventi gratuiti, confronti e dibattiti politici, musica e spettacoli, senso di comunità e bellezza in ogni dove, ma poi ci sono anche i pogrom razzisti, le migliaia di senzatetto, l'aumento di morti per tossicodipendenza a causa della pessima qualità della droga, la rabbia, la depressione, la sensazione di impotenza. Le contraddizioni sono fortissime, ma Atene è più viva che mai e, rispetto a questo, politica e polizia non possono niente. Forse è qui la soluzione, nel combinare la pressione della piazza perché vengano rispettati i diritti di tutti e la dignità di ognuno, e la resistenza quotidiana che consente a chiunque di non sentirsi solo, di ricordare quanto di meraviglioso può riservare l'esistenza.

Ma questo non è che il pensiero ottimistico della sera. Al risveglio, leggo un po' di notizie che arrivano dall'Italia, dal mio paese, leggo dell'attacco sempre più diretto agli ultimi, esili diritti dei lavoratori in nome di mantra appartenenti allo stesso sistema – quello neoliberista – che ha mostrato in piena luce la sua inadeguatezza; leggo della non reazione di un popolo che continua a incassare schiaffi mentre prepara l'altra guancia, leggo di un presidente (non eletto) del consiglio che mette in dubbio – ancora – l'esplicito sentimento antinucleare del popolo italiano. E allora non posso fare a meno di chiedermi se saremo mai capaci di dire no, se arriverà mai il punto in cui smetteremo di accettare tutto, di credere che chi occupa posti di potere "sa quello che fa e lo fa nell'interesse collettivo", se arriverà mai il momento in cui considereremo inaccettabili quelli che molti chiamano "danni collaterali" e che si abbattano sui più deboli, ammazzandoli, umiliandoli e lasciandoli soli a gridare nel buio, mentre coloro che ancora si sentono al sicuro girano il volto altrove pensando che – in fondo – è la vita, che qualcuno deve pur pagare per tutti, che "a chi tocca non si ingrugna". Se poi chi paga per tutti è un "immigrato", allora tanto meglio, in fondo occorre prima pensare agli "italiani puri", agli esseri umani di serie A, quelli che se ne sono sempre stati al paese loro, quelli che non sono mai andati a rubare il lavoro altrove. E allora non posso fare a meno di pensare alla celebre poesia di Brecht, quella che tutti conoscono e pochi capiscono. E penso che questo racconto preferisco concluderlo così, giacché non possiedo risposte, ma solo nuove domande, nuovi dubbi, nuove tristezze.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

B. Brecht

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