
“Si… può… fare!”. Nel suo capolavoro satirico Frankenstein Junior, con la parabola tragicomica di Frederick Frankenstein/Gene Wilder, Mel Brooks ci avvisava che in effetti l’ingegno umano è capace di ogni cosa: soprattutto produrre clamorosi disastri. Ma è giusto cascare due volte nello stesso errore? Si “può” significa che si “deve” fare? O siamo condannati a farlo perché l’umanità è semplicemente costruita così, per sbagliare a ripetizione e non imparare quasi nulla dai propri spettacolari fallimenti? La domanda sorge ascoltando Zombie Lady di Damiano David, il brano che il frontman dei Måneskin ha scelto per lanciare definitivamente il suo primo album solista, Funny Little Fears, uscito venerdì 16 maggio. E non perché la canzone non funzioni, ma perché funziona fin troppo bene.
L’immaginario horror ce l’ha messo Damiano stesso, e così la citazione è venuta da sé. Nel testo del brano, scritto e composto da David con Cleo Tighe, Sarah Hudson, Mark Schick e Jason Evigan, compare un’allusione al film La sposa cadavere: “You'll be my Emily, I'll be your Victor”, dice il cantante romano presumibilmente alla compagna Dove Cameron, che compare più tardi con la sua voce – non presentata come featuring, ma regolarmente accreditata nelle note dell’edizione fisica del disco. Emily e Victor sono i personaggi del popolarissimo film animato di Tim Burton del 2005, un classico se si considera che è uscito quando Damiano aveva 6 anni e Dove ne aveva 9: i due protagonisti simboleggiano un amore che resiste anche alla morte, e non nel senso astratto e simbolico di una Giulietta (la prima sposa cadavere della letteratura moderna), ma in un senso più concreto, parecchio gotico, che porta alle estreme conseguenze la più classica delle iperboli amorose.
Questo codice linguistico e questo specifico riferimento cinematografico hanno un innegabile appeal: basta considerare che il film La sposa cadavere è contato tra le fonti di ben nove “estetiche” dentro la surreale (e popolarissima) Aesthetics Wiki, dagli ovvi Goth con annesse variazioni vittoriane e stravaganti all’estetica Emo, per non parlare delle centinaia di migliaia di citazioni nelle liste di Letterboxd. Del resto, nessuno sarebbe così ottuso da considerare l’immagine di una fidanzata zombie che ti divora il cuore come una sincera adesione all’occulto o alla necrofilia (ma non bisogna mai dubitare della stupidità umana).
Semmai, possiamo osservare che, per la gioia di Damiano David e dei suoi discografici, le canzoni a sfondo necrofiliaco sembrano particolarmente fortunate in questa fase storica: BIRDS OF A FEATHER di Billie Eilish, probabilmente con Espresso la canzone più ascoltata al mondo nel 2024 (387 milioni di riproduzioni su Spotify e 152 milioni su YouTube, al momento), nella sua delicata confezione pop parla di un amore che dura finché l’artista non sarà diventata livida e fredda, rinchiusa in una bara e portata alla tomba dalla stessa persona a cui si rivolge. Insomma, la prima arma di Zombie Lady è che parla esattamente la lingua iperbolica, surreale, oscura e lugubre che funziona nel pop di oggi, specie se è pop zuccherino.
Ma prima ancora di addentrarsi nel testo, Damiano ricorre al più efficace dei dispositivi pop: il gancio melodico, o hook. Anziché cospargere il brano di piccoli hook, però, l’artista romano e i suoi produttori lavorano “alla vecchia”: Zombie Lady si fonda su una melodia che senti da subito, che per non sbagliare viene ripetuta per otto battute a vuoto, e che viene cantata precisamente allo stesso modo quando, inevitabilmente, arriva il ritornello. Un refrain da manuale, insomma: facile da memorizzare; essenziale nel suo movimento a piccoli passi dal basso verso l’alto; diviso in due frasi dal movimento quasi identico sulla scala di Re bemolle, poste a un semitono di distanza. E, appunto, proposto all’ascoltatore dal primo istante.
Rispetto alle altre canzoni del suo album, da Born With A Broken Heart che proponeva uno sviluppo in parti a Voices che usava molteplici hook strumentali in modo molto contemporaneo ed efficiente, dal primo singolo Silverlines al recente Next Summer che impostavano l’attacco iniziale sulla voce nuda e cruda di Damiano, quest’ultima traccia spinta nelle playlist (e presumibilmente nelle radio) è la più classica e convenzionale, un colpo sicuro – staremo a vedere. Ma manda anche un messaggio chiaro: il cantante dei Måneskin gioca secondo le regole del pop internazionale. Se i suoi brani possono ricordare l’approccio lirico di Billie Eilish o quello melodico e stilistico di Harry Styles, se usano strumentali dal sapore vintage pop-rock anni ‘80 con un backbeat solido anziché con la cassa dritta che va di moda nelle nostre classifiche, non è un caso: questa è la dimensione in cui l’artista inscrive la sua carriera solista, una dimensione americana o quantomeno anglofona.

Inevitabilmente, quindi, le sue tracce suoneranno aliene a buona parte del pubblico italiano – l’abbiamo detto una settimana fa, all’Italia non piace la musica straniera. Per esempio, quando ti è capitato di sentire l’ultima volta un brano di un artista italiano giovane e di alto profilo che usa la modulazione di tonalità, cioè traspone “in alto” la stessa melodia per dargli propulsione e nuova linfa? Se non lo ricordi, te lo dico io: quando Damiano David l’aveva fatto in Born With A Broken Heart.
Questa volta, però, l’innalzamento di due semitoni ha anche un’altra funzione, a cui ho già fatto cenno: nell’ultimo refrain, infatti, entra la voce della compagna di Damiano, Dove Cameron, e quindi serve un accompagnamento che si presti meglio al suo timbro. Pur non dotata di un registro necessariamente squillante, la sua voce sarebbe suonata spenta se fosse scesa al livello di quella di Damiano – e se non conosci la carriera musicale di Cameron, ti presento la sua recentissima French Girls, che contiene un’altra citazione a un film di nicchia, un certo Titanic. E se Damiano è disposto ad amare la sua compagna anche se fosse un cadavere, figuriamoci se non accetta di buon grado di salire al piano di sopra per cantare con lei.
Anche perché, che i due innamorati lo vogliano o meno (e non sta certo a noi giudicarlo), è un fatto della cultura pop contemporanea che la curiosità per la vita privata dei cantanti e la costruzione di un immaginario poetico intorno ad essa siano cruciali per stabilire un rapporto privilegiato tra fan e artista: ne abbiamo parlato già discutendo della popolarità di Taylor Swift, che di quest’arte è la più esperta conoscitrice, e di recente cercando di sviscerare la fortuna di Battito di Fedez, ed è un’altra caratteristica che separa il grosso della musica italiana da quella internazionale.
In Italia, il grosso delle popstar propriamente dette ancora privilegia la riservatezza (in piena onestà, non se ne può far loro una colpa), mentre tra spacconate grottesche e saltuari squarci di verità soltanto il rap gioca con la pretesa di abbattere la barriera tra artista e fan, di presentarsi all’ascoltatore/spettatore/follower per quello che si è. È solo un’illusione, uno spettacolo della verità, e non è nemmeno così una novità a ben vedere: si guardino Lennon/Ono, Gainsbourg/Birkin, Cobain/Love, Beyoncé/Jay-Z, e così via.
Ma è un’illusione che nell’epoca dell’accesso totale e continuo sembra appagare come mai prima gli appetiti dei fan, anche quelli ben disposti e non necessariamente inquietanti. Che lo si consideri frutto di un calcolo o una spontanea dichiarazione d’amore in duetto non sta a noi stabilirlo, ma Zombie Lady di Damiano David gioca in questo campionato di commistione tra finzione e realtà, tra recitazione e confessione. I suoi fan non aspettavano altro, e anche questa è una ricetta del successo: dare al pubblico esattamente ciò che chiede.
