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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Fortnight di Taylor Swift con Post Malone

Fortnight è la canzone che apre il nuovo album di Taylor Swift, The Tortured Poets Department: ecco perché sarà una delle canzoni più amate e cantate.
A cura di Federico Pucci
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Taylor Swift al Super Bowl (ph AP Photo/Toru Hanai, File)
Taylor Swift al Super Bowl (ph AP Photo/Toru Hanai, File)

Pochi giorni fa Courtney Love ha dichiarato allo Standard che “Taylor Swift non è importante: sarà pure un rifugio sicuro per le ragazze, e magari è la Madonna di questo momento, ma non è interessante come artista”. Al netto della posizione di chiunque, la domanda che implicitamente sorge da quest’opinione tranchant non è banale: qual è l’impatto netto della musica di Taylor Swift? Quanto e come ha contribuito alla cultura (pop, per carità) del nostro tempo? Rispondere è difficile, ma abbiamo un luogo dal quale provare a estrarre qualche informazione utile: l’ultimo album, pubblicato ieri, The Tortured Poets Department.

Se ancora nel 2024 ci fosse qualche persona convinta che la musica sia “soltanto” musica, raccomanderei loro di infilare il naso per qualche minuto dentro il più recente lavoro della cantautrice, superstar e (da un paio di settimane, dice Forbes) miliardaria americana. A cominciare dal titolo, The Tortured Poets Department, il dipartimento dei poeti tormentati: il termine – dicono i swiftiani più preparati – deriverebbe dal nome del gruppo Whatsapp che l’ex compagno Joe Alwyn aveva con altri colleghi attori come Paul Mescal (aneddoto rivelato in un’intervista a Variety), chiamato Tortured Men Club. E già da questo primo dettaglio vediamo aprirsi un mondo di possibili interpretazioni. Per i fan di Taylor Swift questa esegesi iconografica e linguistica fa parte dell’esperienza di ascolto: come una copertina fa parte dell’esperienza di lettura del libro che essa racchiude, così il dettaglio biografico acquisito ramazzando la rete a caccia di indizi o semplicemente seguendo la vita della popstar ha una funzione semantica ben precisa.

Il successo di Fortnight, insomma, è partito prima ancora che Taylor Swift alzasse la penna (o aprisse il laptop) per scriverla. Perché la musica di Taylor Swift non si esaurisce con le canzoni, esattamente come la trama dei film Marvel non si esaurisce nella sceneggiatura. Qualcuno li chiama Easter Egg, i contenuti segreti che fin dai primissimi album Taylor ha inserito prima nei booklet dei suoi CD, ora in una miriade di contenuti e messaggi ufficiali sparsi in rete, per comunicare direttamente con ascoltatori e ascoltatrici. Da un decennio abbondante, insomma, il pubblico di Taylor Swift è invitato a decifrare ogni singolo elemento della produzione e comunicazione della cantautrice. Ma il primo livello di decodifica – e ci mancherebbe altro – resta quello dei testi: cosa significano? A cosa si riferiscono in realtà? Quale elemento del folklore swiftiano è segretamente alluso?

Se vogliamo andare alla radice di tutto, la poesia non è nient’altro che questo: comunicare una cosa, dicendone un’altra. Taylor Swift in questo senso è una poetessa per eccellenza: non sarà Patti Smith (se lo dice da sola con vera o presunta modestia nel ritornello del brano che dà il titolo al disco), ma d’altronde neppure l’interlocutore è Dylan Thomas (stessa fonte). In compenso, Swift è un’abilissima songwriter e il produttore del brano, l’ubiquo Jack Antonoff con cui collabora ormai dal lontano 2014, è uno scaltro (per quanto non originalissimo) arrangiatore. E Fortnight ne è l’ennesima prova.

Il brano si apre con quello che è di fatto il primo grande hook: la linea di basso, suonata da un synth, che segna implacabile il tempo battendo sui quarti. A molti ascoltatori ha ricordato A Real Hero dei College con gli Electric Youth, brano del 2010 reso celebre dalla colonna sonora del film Drive. Se l’allusione fosse corretta, il riferimento risulterebbe piuttosto ironico, dal momento che nell’ultima “era” Taylor Swift si definiva piuttosto un’antieroina. (E rieccoci nella trama di indizi e possibili interpretazioni). A prescindere dall’eventuale messaggio, questo tipo di intro ha un’efficacia strategica: farci cementare nel cervello il (peraltro collaudatissimo) giro di accordi della canzone. In questo senso, l’artista si dimostra davvero una formidabile storyteller: l’ascoltatore, infatti, non è invitato semplicemente a memorizzare un breve motivetto, un inciso tanto ripetitivo quanto fugace, ma l’intero arco armonico-narrativo del brano, che si ripeterà in modo quasi identico per l’intera durata. L’invito, insomma, è a seguire lo sviluppo del racconto.

Linee di basso di questo genere abbondano nel synth-pop. Se ne sente una piuttosto simile come timbro e ritmo anche in Love It If We Made It dei 1975, la band inglese che ha come leader Matty Healy. Cioè, uno degli ultimi compagni di Swift, nei primi mesi del 2023, e che potrebbe essere quindi il soggetto se non di questa, probabilmente di alcune tracce di quest’ultimo disco. (Rieccoci nella ragnatela subliminale). Il riferimento è in realtà utile per valutare la produzione del brano: a differenza di tanto synth-pop passato e recente (compresa Out Of The Woods, a cui lavorò lo stesso Antonoff, o metà della discografia dei 1975), dove il lavoro di ricerca dei timbri è maniacale e la sovrapposizione di diversi minimi segnali acustici ossessiva, per creare un crescendo soverchiante e terribilmente efficace di stimoli, qui si opta invece per un discreto minimalismo.

A parte il riverbero sulla voce della cantante, i suoni risultano piuttosto asciutti: si può fare un confronto con alcune tracce del precedente album di inediti, Midnights, come Bejeweled, dove i bassi sono filtrati e compressi creando un effetto di oscillazione che restituisce una sensazione di minaccia incombente (si parla di basso Reese, dal nome del progetto del dj Kevin Saunderson che nel 1988 fu pioniere dell’effetto). Qui, invece, si opta per altri abbellimenti sonori: come l’intervento vocale di Post Malone. Per quanto venga considerato “featured artist”, il rapper e cantante ha a malapena 8 versi per sé, e per il resto agisce piuttosto da “backing vocalist”, o corista. Eppure, il suo contributo alla fine dei versi, a partire dalla seconda strofa, è decisivo: aggiungendo ulteriore texture alla lenta e ben scandita melodia, la sua voce crea una sorta di eco spettrale al canto riverberato di Swift. Anche se non stiamo seguendo tutta la storia, anche se ci perdiamo qualche metafora, o se banalmente non conosciamo l’inglese, la canzone ci sta facendo “sentire” quel che vuole dire: sentirsi nel giusto alla fine di una relazione non è una consolazione sufficiente, quando la passione continua ad aggirarsi come un fantasma.

Che si consideri “a real hero” o una “anti-hero”, Taylor è consapevole di un dogma antico come il pop stesso: nell’ottica distorta dell’innamorato, la reciprocità del sentimento è l’unica forma di certificazione del proprio valore. Sicuramente ne aveva parlato bene già Carole King in una celebre canzone che scrisse per le Shirelles. Quando nel 2021 Taylor Swift omaggiò la veneranda collega alla Rock and Roll Hall of Fame cantando quel brano, Will You Still Love Me Tomorrow, l’arrangiamento era simile a quello che oggi sentiamo in Fortnight. Non sembra affatto un caso: già in 1989 e soprattutto in Midnights, due dischi accomunati da un profondo senso di crisi esistenziale prima ancora che sentimentale, la popstar era ricorsa a questo genere di suoni, tempi e cadenze armoniche e melodiche, che per lei sembrano indicare momenti di passaggio. The Tortured Poets Department potrebbe descrivere semplicemente una prosecuzione di questa crisi (o poetica della crisi): i primi versi del brano, del resto, fanno intravedere le stesse ansie e preoccupazioni che avevano fatto credere ad alcuni critici che Midnights fosse il racconto di una riabilitazione.

Nonostante i riconoscimenti, i tour mondiali e gli incassi, il momento non è allegro per Taylor. Fortnight è un preludio piuttosto oscuro all’intero album: più che svilupparsi, la canzone va alla deriva; dal punto d’orgoglio iniziale si sprofonda pian piano in un vortice di quattro accordi e due incisi, finché sul finale – quando canta praticamente solo Post Malone – è chiaro che il rimpianto ha preso il sopravvento. Probabilmente quel percorso di crisi e ricostruzione non era del tutto terminato quando il disco è stato concluso. Certo, all’apice dell’era “imperiale” di Taylor Swift, quando oltre ai numeri e agli incassi può vantare una relazione stabile e un consenso critico quasi unanime, viene da chiedersi come mai sia così preoccupata dall’opinione altrui. Forse perché, nel teatro dei social, oggi lo siamo tutti. E lei, semplicemente, lo dice meglio e più chiaramente di tutti gli altri suoi colleghi.

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