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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Casa mia di Ghali

Un cinico potrebbe dubitare delle buone intenzioni di Ghali, concludendo le sue esibizioni festivaliere con l’appello al cessate il fuoco e alla fine del genocidio. Ma al cinico risponderei così: non è stato questo stesso contesto a ispirare la canzone, già in partenza? Non parla, forse, Casa mia della futilità dei confini e del bisogno di pace?
A cura di Federico Pucci
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Pochi giorni fa, parlando a Los Angeles per l’evento di Billboard Women in music, organizzato alla vigilia della Giornata internazionale della donna, Annalisa ha detto: “Questa è la magia della musica pop: diffondere messaggi con semplici parole e un ritmo che ti fa ballare l’anima”. Una sintesi migliore non si sarebbe potuta trovare per la sua Sinceramente, di cui abbiamo parlato due settimane fa. Ma, a ben vedere, questa è tecnicamente la più concisa e precisa definizione di anche un’altra canzone passata dallo stesso palco di Sanremo: Casa mia di Ghali.

Le sorti di una canzone dipendono da molte ragioni. Alcune sono inerenti alla composizione stessa, o alla produzione, o al modo in cui l’artista si fa portavoce di quel breve momento di musica. Altre sembrano esterne, contestuali, ma sono ugualmente parte dell’identità della canzone. Casa mia è arrivata tra di noi in modo dirompente, anche per via del contesto storico in cui l’abbiamo conosciuta, nel mezzo di due tragedie umanitarie (peraltro non iniziate certo oggi): la rotta dei migranti nel Mediterraneo e la guerra a Gaza. Un cinico potrebbe dubitare delle buone intenzioni di Ghali, suggerendo che abbia approfittato di questi drammi per promuovere la sua canzone, concludendo le sue esibizioni festivaliere con l’appello al cessate il fuoco e alla fine del genocidio. Ma al cinico risponderei così: non è stato questo stesso contesto a ispirare la canzone, già in partenza? Non parla, forse, Casa mia della futilità dei confini e del bisogno di pace?

Chiedersi del messaggio di una canzone, e di come eventualmente questo abbia contribuito alla popolarità della stessa, non è fuori luogo in casi come questo. Come non lo era per Alright di Kendrick Lamar, canzone sulle violenze della polizia ai danni degli afroamericani, pubblicata come singolo nell’estate 2015, durante la prima grande ondata di manifestazioni Black Lives Matter (che da subito l’adottarono come inno), ma innestata in una storia secolare. Insomma, piaccia o no a chi vorrebbe le canzoni come spazio apolitico di pura distrazione, la storia del pop è piena di artisti con l’intenzione – magari ingenua – di raccontare le nostre società segnalandone uno sbaglio, provando a muovere le coscienze oltre che i corpi.Diffondere messaggi con parole semplici”, per riprendere le parole iniziali. Il fatto che questa canzone faccia anche “ballare l’anima” e che sia scritta e prodotta con grande sensibilità e gusto non sminuisce questo messaggio, anzi. Anche perché, sottilmente, ci manda un altro messaggio: non dobbiamo smettere di immaginare un futuro migliore.

Se parliamo di futuro, in musica, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo fino al 1977 e alla factory di Giorgio Moroder, Musicland a Monaco di Baviera, dove il produttore e il suo socio Pete Bellotte stavano provando a dare una forma al “suono del futuro” per l’ultima traccia di un disco di Donna Summer dedicato al tempo e alle sue epoche (I Remember Yesterday). L’archetipo di questo suono del futuro, nato allora e inciso dentro I Feel Love, è un arpeggio di sintetizzatori bassi sincronizzato in modo precisissimo e infallibile con il tempo di un metronomo. Ed è precisamente questa forma che sentiamo nel primo break di Casa mia, nel segmento prima del ritornello che ci ripresenta i versi iniziali (“Ma il prato è verde, più verde…” a 0:50 circa). Sentiamo i toni bassi che punteggiano gli ottavi, i toni alti (duplicati un’ottava più in alto) che vi si intrecciano nei sedicesimi: è tutto talmente Moroder che sembra di aver già sentito questi arpeggi dentro Giorgio By Moroder dei Daft Punk (2013), ma con una manipolazione dei suoni che ricorda più l’album Discovery (1997).

Siamo intrappolati in una rete di note che dipinge l’armonia come un dipinto puntinista. Quel giro di accordi l’avevamo sentito già, all’inizio della canzone, perché – come si raccomanda agli aspiranti tormentoni – presentare subito il succo del discorso musicale aiuta l’ascoltatore a riceverlo più facilmente in seguito. Ad esempio, quando una strumentazione e un arrangiamento più complessi (come nel caso di questo “pre-ritornello”) hanno altre priorità in mente: tipo, farti muovere le anche. Dentro questa struttura metrica rigida Ghali può completare il groove riempiendo gli spazi vuoti con una melodia dal ritmo totalmente diverso rispetto ai bassi: un ritmo dattilico (tempo forte + tempo debole + tempo debole), tripartito, con le note legate fra loro. In questo futuro matematico, meccanico, robotico l’inciso di Ghali è il fattore umano che ci fà da guida, che tende una mano a chi è spaventato dal futuro stesso, pronunciando le parole che più associamo a un domani sereno: “il cielo è blu”.

Possiamo seguire un filo diretto che dal 1977 di Moroder al 2013 di Random Access Memories ci porta al 2016 di Starboy di The Weeknd con i Daft Punk, che condivide alcune somiglianze con Casa mia: per esempio, nel pattern percussivo che fa da base ritmica alla strofa, che però Ghali e Michelangelo (produttore del brano) scelgono di non usare gli abusati suoni della Roland TR-808, ma qualcosa che ha un sapore più tangibile e concreto, forse addirittura sample di percussioni sahariane o dell’Africa occidentale. Il che sarebbe appropriato per accompagnare il verso “figli di un deserto lontano” (profetico il successivo “zitti, non ne posso parlare”). Il groove della strofa, piuttosto scarno, è punteggiato ogni due quarti da una tastiera che sembra entrare in leggerissimo ritardo: non è un errore, è una pratica comune nel blues e nella musica afroamericana in generale (si dice “playing behind the beat”). Un pratica che ha resistito anche con l’arrivo delle “macchine”: viene in mente Wanna Be Startin’ Somethin’ di Michael Jackson, dove le tastiere Rhodes e Roland Jupiter entrano con quei millisecondi di ritardo (accentuati dall’attacco degli archi) necessari a dare un respiro umano a quell’intreccio di battiti – si sente bene già nell’intro del brano. Anche qui, se volessimo, potremmo cogliere tra le righe quel messaggio a favore dell’umanità: ma sta di fatto che questo genere di concessioni alle strutture più rigide è anche un mezzo ben conosciuto e praticato per non perdere l’attenzione dell’ascoltatore, che una volta interiorizzato il ritmo e l’armonia potrebbe perdere interesse se non fosse, anche solo brevemente, sorpreso.

Michael Jackson è peraltro un comune punto di riferimento per il citato The Weeknd e Ghali. Addirittura l’artista milanese parlava del “King of Pop” già nelle primissime interviste, ben prima che tutta Italia lo scoprisse vedendo il suo look nella terza serata del Festival. Casa mia porta con sé anche un altro gioiello nascosto di Michael Jackson: un giro d’accordi che ricorda da lontano Smooth Criminal, per quanto sopra suddivisioni di battute diverse, e con la sostituzione di un accordo Mi maggiore (“are you okay, Annie?”) con un Mi minore (“che differenza c’è”). Forse non è una citazione, certamente non è una scopiazzatura: è prima di tutto un giro energico che realizza appieno la tensione e l’ambiguità della tonalità minore, perché ci fa sentire ogni nuovo accordo, ogni nuovo gradino come uno scambio di energia a due direzioni, non una passiva ricezione come capita in altre canzoni dal valore calorico più alto, ma con scarso apporto nutritivo. Casa mia, nella sua assoluta semplicità, ha invece molto da dare. Un ritmo per “far ballare l’anima”, certo. E un messaggio detto “con parole semplici”: che nessuno è “alieno” sul pianeta Terra, nemmeno quelli a cui decidiamo di dare questo nome.

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Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant'anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.
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