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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa A me mi piace di Alfa e Manu Chao

Alfa ha pubblicato A me mi piace, una canzone pop che prende da Me Gustas Tu di Manu Chao, che compare come feat, rinnovandola: ecco perché questa canzone piace così tanto.
A cura di Federico Pucci
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Alfa e Manu Chao
Alfa e Manu Chao

Basta la nostalgia per mandare un singolo al numero 1 e, potenzialmente, dominare l’estate italiana del 2025? Nello stato attuale (piuttosto scadente) del pop estivo tricolore potrebbe anche bastare. Ma dentro la fortuna di A me mi piace di Alfa e Manu Chao misurabile con un primo posto generale nella classifica FIMI, un quarto posto in rotazione radiofonica e la diffusione nelle classifiche Spotify Viral di Francia, Spagna, Belgio, Austria, Svizzera e globale c’è dell’altro.

Non ce ne voglia Alfa, ma bisogna partire dalla nostalgia. Un anno fa, l’ultimo sforzo discografico di Manu Chao a malapena vedeva la metà classifica: Viva Tu entrò alla 54esima posizione il 27 settembre e se ne andò alla chetichella dalla top 100 italiana sette giorni dopo. Certo, i numeri non sono tutto per determinare l’impatto di una canzone o di un disco, ma è netta la differenza tra questo risultato e le venti settimane in classifica di Me gustas tú, la canzone ripresa, riadattata e fatta propria dal musicista genovese nel suo ultimo successo. Questa differenza si misura ogni volta che il tormentone dell’estate 2001 si riaffaccia: dal pubblico ruggente di un lontano Glastonbury del 2008 alla recente cover che ne ha fatto Dua Lipa il 12 maggio scorso a Madrid, passando per regolari riemersioni su Tiktok, si può dire che questa canzone è entrata in un canzoniere globale (o quantomeno continentale) e non se ne vuole schiodare.

Da una parte, il brano originale ha una forza musicale intrinseca. La senti in quel giro di tre accordi ripetuti allo sfinimento (Si minore, La, Mi minore), disposti in modo tale da farti riposare su un accordo che non dovrebbe suonare come la destinazione finale, e infatti non la è. Davanti a questa risoluzione fittizia veniamo predisposti a un certo atteggiamento: prima seguiamo il testo tra le minuzie e i dettagli delle preferenze di Manu, e poi riflettiamo momentaneamente sui concetti più astratti (“volver”, “correr”, etc) che cita nella seconda metà del verso, sopra quel Mi minore sostenuto. Dentro la trama minore (che non vuol dire triste!) di questa progressione, ci troviamo a nostro agio nella sua insoddisfazione costante, nel suo bisogno di definire nuove forme di “piacere”, dal micro al macro. Questa sospensione senza scioglimento ci avvince e siamo spinti in modo subliminale in avanti, incuriositi di sapere quale sarà la prossima voce dell’elenco di Manu Chao, incentivati dal ritmo cantilenato della melodia.

Se le Favorite Things di un famoso musical rotolavano morbide in un valzer di note, qui la melodia “suona davvero” come un’anafora – quella figura retorica che se ricordi senza bisogno della mia spiegazione, complimenti, non hai sprecato gli anni delle scuole superiori! Come sostengono nelle scuole prestigiose dove insegnano a scrivere e comporre, l’anafora può essere un potente mezzo lirico: il rap, anche nostrano, sa bene che cominciare ogni barra con la stessa parola (“che figata”) può essere un potente dispositivo mnemonico. Questo artificio linguistico si porta dietro una conseguenza ritmica ovvia: ogni “me gustas” disegna una successione di colpi identici.

Questo pattern è particolarmente forte, in realtà, alla fine dei versi: quel “me gustas tú” eponimo della canzone, questa successione di un colpo breve e tre lunghi che ricorre continuamente nelle strofe come una chiusura formulare (insomma, un’epifora, con tanti cari saluti ai nostri prof di italiano) disegna un refrain metrico costante al quale l’orecchio si aggrappa facilmente (ta-taa-taa-taa). Insomma, pur nella sua estetica così chiaramente terzomondista e anticapitalista, la superstar dell’alt-latino patchanka world music ha scritto una canzone pop praticamente perfetta: con tre accordi e basta; con una cantilena facile da memorizzare grazie a un espediente lirico; con un hook ritmico impossibile da scordare alla fine di ogni verso; e infine con un ritornello che, in modo più o meno implicito, riprende la scansione di quell’hook e lo intensifica a livello melodico (“¿Qué voy a hacer?, je ne sais pas”).

Dall’altra parte, c’è una questione storica da non ignorare. Quando, nel maggio 2001, Me gustas tú e questa sua fusione di infinito e particolare, di collettivo e personale (“mi piaci tu”, senza vu vu vu) debuttano al numero 1 della FIMI, il mondo è un posto molto diverso. Le Torri Gemelle non sono crollate, il G8 di Genova e gli abusi di potere delle forze dell’ordine non si sono ancora tenuti, e i social network sembrano un’invenzione fantascientifica. Chi c’era sa che il mondo era tutt’altro che perfetto, si potrebbe dire anche che era meno sicuro e più ingiusto sotto tanti punti di vista.

Ma la memoria è abituata a giocare brutti scherzi, e tutto sembra migliore se posto a una distanza sufficiente di tempo: è il mito dell’età dell’oro, e in questi tempi di incertezza generale, anche il 2001 sembra confortevole. “Te lo ricordi quando cantavi e ballavi (inserisci titolo della canzone)” è una formula che non a caso trionfa nelle proposte di eventi dal vivo che spopolano nella penisola e programmi televisivi, che ci invitano a rimpiangere qualsiasi minuzia dell’immaginario pop, dalle sigle dei cartoni animati in giù, come se questi spettri del passato potessero venire a riempire il vuoto delle nostre vite.

Ma i fantasmi del passato siamo noi, che non riusciamo a lasciare in pace nulla, e tutto sommato continuiamo a mandare in classifica le canzoni costruite – consensualmente! – sopra gli accordi e le melodie di vecchi successi. È la storia delle interpolazioni, di cui abbiamo già parlato, che hanno preso possesso di una parte consistente della discografia, invitandoci ulteriormente a ritenere in modo implicito che nulla di originale sia più possibile e che tutto è già stato detto e fatto – probabilmente l’opinione musicale più disinformata e naif che vi sia in circolazione. Ma per ogni persona che snobba le facili minestre riscaldate del pop e che per questo si convince che non vi sia più nulla di autentico in circolazione, una massa importante – e che quantifichiamo ogni settimana con centinaia di migliaia di stream – è dell’opinione opposta, e vuole solo del comfort food musicale. E lo trova spesso in ciò che gli stuzzica la memoria, come i sapori delle merendine della nostra infanzia. Lo trova, in questo caso, in A me mi piace.

A questo discorso bisogna aggiungere in assoluta onestà il contributo di Alfa, un artista pop che sa quello che fa, ed è arrivato agli attuali risultati (e a un prossimo tour europeo e nei palasport) provando e riprovando, e imparando sulla sua pelle come si fa un successo. Paragonato tante volte a Ed Sheeran per aver sintetizzato allo stesso modo una gavetta di rap freestyle e un gusto metrico hip-hop con un gran fiuto melodico (o forse solo per una somiglianza esteriore, vai a sapere come nascono certi paragoni) qui davvero Alfa lavora in un modo che renderebbe fiera la popstar inglese: lavorando sulla traccia come fosse una jam, partendo dall’originale per remixare “live” tutti gli elementi di partenza, scovare un pertugio libero e lì incastonare il primo mattone di una costruzione originale. Vediamo come.

Se fai caso ai contributi palesemente nuovi del brano di Alfa rispetto a quello di Manu Chao – il cantato delle due strofe, in toto; il primo bridge (“Perché tu sei come Roma”) e il secondo (“la la lala”) – noterai che in ciascun caso il giovane cantautore ha inserito nel DNA ritmico di Me gustas tú un proprio flow originale. Nella strofa, dove l’eventuale riproposizione della metrica di partenza sarebbe stata un segno di scarsa inventiva, noti semmai una scansione completamente nuova, basata su un cromosoma ritmico di otto colpi brevi; nella seconda questa viene addirittura proposta in controtempo, aggiungendo un ulteriore messaggio: la canzone sarà in giro da 24 anni, ma Alfa cammina secondo il proprio passo e non ha bisogno dell’hook dell’originale, che avevamo visto essere così centrale.

Nei bridge, addirittura, Alfa apre spazi nell’accompagnamento strumentale per aggiungere inserti del tutto originali, che spezzano il ritmo tematico del brano e gli danno un altro flusso: non stiamo solo elencando cose che mi piacciono, stiamo raccontando chi siamo. In particolare, il secondo bridge presenta qualcosa di significativo per stabilire le dinamiche interne del pezzo, un intervento di Manu Chao che sembra solleticare la nostra memoria. Chi era vivo già un anno prima di Me gustas tú ricorderà anche il tormentone Me cago en el amor: costui o costei potrebbe essere balzato/a sulla sedia quando in quel segmento di A me mi piace riecheggiano le parole di Tonino Carotone “che vita intensa” e “nostro grande cuore”.

Siamo sempre nel M(anu) C(hao) U(niverse), perché a quel brano partecipò proprio anche il franco-spagnolo, ma risentire quelle parole disincarnate come spettri e lanciate nella mischia ci mette all’erta sui valori in campo. Il ricordo che si frammenta e si sparpaglia dentro un’esperienza nuova, perdendo il contesto, perdendo gli appigli di senso e perfino di sintassi, per trasformarsi in un’esperienza familiare eppure diversa. Giostrare familiarità e novità – non lo dirò mai abbastanza – è il succo imperscrutabile di una hit, e ad Alfa questo equilibrio riesce variando, remixando, spezzando, ricomponendo, rallentando e accelerando. Perché quello che piace a Manu Chao non è detto che piaccia anche ad Alfa.

Non importa che l’hook ritmico e l’anafora siano parte del successo di Me gustas tú: se quel giro di chitarra ti farà pensare a come suonava quel brano, buon per te, ma la canzone di Alfa esiste nello spazio che ogni opera artistica ci concede per la variazione e lo stravolgimento, l’omaggio e l’abuso. Uno spazio di pura libertà, nel quale chi ha fiducia nei propri mezzi può brillare: senti la variazione sulla melodia della seconda parte del ritornello (“più del mar Mediterraneo”) dove Alfa stiracchia e sincopa quell’hook ritmico così importante nel brano di partenza. Bisogna ricavarsi il proprio spazio, anche fra le macerie di un classico. Che – come volevano i dadaisti di un secolo fa – è tanto più valido quanto meno ne abbiamo rispetto.

Ci sono molti modi per fare ciò. C’è chi, come Sofia Kourtesis, proietta il classico nel dance floor con il suo remix-megamix di Manu Chao Estación Esperanza, come per augurarsi che anche la nostra esperienza musicale libertaria, alternativa e concettuale possa abbeverarsi di quel senso di promessa, gioco e fiducia che in parte abbiamo vissuto a inizio millennio. E c’è chi, come Alfa, prova a recuperare la meraviglia e l’ottimismo incarnato dal brano per immaginare un altro mondo armonioso e plurale; tanto più plurale quanto più invita l’ascoltatore a partecipare (come si fa nel pop di oggi), a dire cosa “gli piace” e non limitarsi a ripetere l’elenco di Manu. “Me gustas tutto”, dice Alfa insidiando il sentimentalismo dell’originale (per metterecene di proprio, sia chiaro): tra il “tu” e il “tutto” si spalanca così una voragine di senso, che ci dà il permesso di esprimere le nostre preferenze in piena indipendenza. Celebrando la possibilità e la sua eccitante incertezza, anziché le formule chiuse considerate sicure che regolarmente, in questo strano 2025, si ostinano a non funzionare più.

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