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Lingua italiana, insegnarla in carcere vuol dire garantire il diritto di saper comunicare

Cosa vuol dire insegnare italiano in carcere? In primis garantire ai detenuti il diritto di potersi esprimere, restituire l’arma della comunicazione a chi ha bisogno di resistere. Ce lo racconta Marco Rovaris, insegnante di lingua italiana nel carcere di Bergamo.
A cura di Silvia Buffo
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Luigi, studia la lingua italiana nel carcere di Bergamo
Luigi, studia la lingua italiana nel carcere di Bergamo

Insegnare lingua e letteratura italiana in carcere significa dare strumenti importanti ai detenuti, che hanno il bisogno fondamentale di comunicare e, soprattutto, di saper argomentare, saper difendere le proprie posizioni, poter coltivare obiettivi e mettere a fuoco le proprie mete. Apprendere l'italiano nel modo migliore possibile è indispensabile a tutti ma mille volte di più se sei un detenuto che sta scontando una pena o se devi difendere la tua innocenza. A raccontarci questo particolare universo dei detenuti, intenti a studiare la lingua italiana, è Marco Rovaris, dottore in Culture Moderne Comparate, che insegna Letteratura italiana e Storia nel carcere di Bergamo, all’interno di un corso ITC,  e si occupa anche di cinema e documentari, fra questi si ricorda "Dante a mezzogiorno".  L'intervista.

La lingua è indispensabile a tutti ma in particolare a chi si trova in una condizione di svantaggio e la capacità di comprenderne le sfumature e di approcciarsi in modo adeguato a diverse persone e circostanze può fare la differenza.

Credo che insegnare italiano in carcere sia una delle mie missioni proprio per queste ragioni. I miei studenti se ne rendono di quanto siano importanti i processi comunicativi, in particolare uno che si è diplomato lo scorso anno impazziva letteralmente per Pirandello e per i concetti di “ruolo” e “maschera”, consapevole di come tutto può essere arbitrario e relativo a seconda del punto di vista; non a caso era uno degli studenti con più anni di carcere alle spalle ed era ben cosciente di quanto l’uso della lingua fosse necessario per chi si deve approcciare, con obiettivi chiari, ad un avvocato, appuntato, magistrato o ad educatrice, solo per fare alcuni esempi di figure con le quali è necessario discutere. Mi ha subito incuriosito molto la loro reazione all’uso delle parole: “Anche quando non ci sono prove immediate, non mi definiscono presunto innocente, anche se io mi dichiaro tale; bensì sta a me dimostrare che non sono colpevole, perché risulto poco credibile a priori”. Non si può sottovalutare l’effetto psicologico che una certa terminologia ha su un soggetto, indipendentemente dalla effettività della colpa. Chi parte già costretto a rincorrere, deve avere gli strumenti per stare nel gioco della comunicazione, o ne viene schiacciato subito.
Pensiamo a Manzoni, che dimostra come chi non è in grado di confrontarsi – cioè chi è ignorante, inteso in un’accezione tutt’altro che negativa – è destinato a soccombere nel momento in cui si muove tra le frange più complesse della società.

Ed è quello che, sostanzialmente, sostiene anche Verga: meglio che i meno istruiti stiano tra loro e non si spingano oltre; credo sia per questo che Verga non piaccia quasi a nessuno in un contesto come il carcere, perché è un autore che suggerisce di rinunciare a un miglioramento della propria condizione. Lo stesso “burocratese” di cui parla Calvino è un problema che sussiste ancora oggi, forse addirittura peggiorato, e che mette in ginocchio tantissime persone che non sono in grado di interpretare documenti, avvisi, moniti, etc… E questo paralizza il sistema e spinge chi non ha gli strumenti a delegare, perdendo così la facoltà di essere padrone unico delle proprie decisioni. Quante volte mi sento dire, a proposito dell’ambito penale, “Ma che logica ha la giustizia italiana?”, “I miei capi di accusa sono in contraddizione, non possono sommarsi!”, e così via; non è mia facoltà né possibilità dare giudizi ed entrare nel merito, ma questa è la prova che i detenuti capaci vanno a sfogliare il Codice penale, studiano, si fanno delle idee e le mettono in circolo, dimostrando che la cultura non è erudizione, ma capacità di saper leggere le situazioni e interpretarle.

Se dovessi spiegare ai tuoi studenti detenuti il prezioso valore della lingua con quale opera lo faresti?

Ho cercato di illustrare l’efficacia di un’opera come il De vulgari eloquentia di Dante, che si rivolge ai piani alti, quindi usando il latino, per legittimare però il valore della lingua volgare e provare a innalzarla a strumento di comunicazione illustre: un’operazione raffinata e sottile, che solo un genio della lingua poteva concepire. La lingua scritta deve essere compresa e potenzialmente usata da tutti, ecco perché Galileo sceglie il volgare con Il Saggiatore, dove non conta tanto il contenuto, ma l’uso del ragionamento che lo scienziato mette in atto. Per fortuna un po’ di Illuminismo arriva a influenzare per un attimo anche l’Italia, perciò sto preparando una lezione su Dei delitti e delle pene di Beccaria e sulle implicazioni sulla società disciplinare, che sono certo che mi darà soddisfazioni. Io cerco sempre di far riflettere sul significato delle parole e, laddove mi è possibile, lavoro molto sul lessico e sulle sue sfumature; venendo da una formazione classica, insisto sull’etimologia per dimostrare che il gioco della lingua ha radici antiche e c’è sempre un motivo se si usa un vocabolo piuttosto che un altro. La difficoltà è saper scegliere la parola giusta nel momento giusto, ecco perché padroneggiare la lingua italiana può aprire qualsiasi porta nella comunicazione, assolutamente a tutti i livelli. Io stesso, conoscendo lo slang della strada, posso parlare a molti di loro e creare un’empatia che permette di superare le diffidenze e stabilire un rapporto più genuino e reale, che dà poi adito al campo libero per l’apprendimento e il confronto.

La lingua trova la sua più alta espressione nel confronto, nel dibattito, nella dialettica ma anche nei diari e nelle lettere di chi vuole raccontarsi… Cosa avviene tra i banchi di un'aula in carcere?

Il desiderio di dare opinioni e di intervenire è altissimo tra i detenuti e questo rende le mie lezioni vivissime e ricche di dibattito. Sono voci che vogliono essere ascoltate e la loro dedizione si manifesta in continue e spontanee produzioni scritte: saggi, racconti, poesie, lettere… Devo dire che sono molto affascinato da questa rinascita del modello epistolare che avviene in carcere, un po’ per condizione obbligata un po’ per voglia di raccontarsi; vedere persone che scrivono a penna su fogli strappati, in un’era digitale come la nostra, è un’esperienza che mi nobilita, soprattutto nel momento in cui mi viene chiesto, a volte timidamente, un giudizio. Mi sembra di rivedere me, bambino, portare alla maestra i miei primi tentativi di sceneggiature. Un mio studente che soffre di insonnia si sveglia alle 4 del mattino, poi si mette in bagno e inizia a scrivere a qualcuno che lo aspetta a casa: io leggo quasi tutto con piacere. Sono molto fortunato per questo scambio continuo e per me è un onore riscuotere tutta questa fiducia, perché non mi ritengo un intellettuale, ma un umanista: mi interessa il parere di ogni essere umano, soprattutto se escluso e rinchiuso.

Pensi che i tuoi studenti vogliano coltivare anche da sé le proprie competenze nell'uso della lingua, una volta ricevuti giusti stimoli in classe?

Conoscere i miei studenti e le loro inclinazioni mi consente di personalizzare il lavoro in classe – visto che io e loro preferiamo lavorare insieme e non attraverso il “compito a casa” – e di portare loro delle letture con le quali arricchirsi e passare il tempo. I detenuti sono lettori compulsivi, credo che leggano anche più di me, e assorbono in maniera impressionante i libri che a loro interessano davvero. La lettura inoltre li aiuta laddove abbiano difficoltà a livello di sintassi, punteggiatura, qualche aspetto di grammatica; leggendo si impara molto a costruire frasi di senso compiuto e a memorizzare sintagmi e locuzioni, di certo di più rispetto alla lezione frontale in classe. Infatti io lavoro in classe più sui contenuti e sul ragionamento, che sono gli aspetti più importanti per chi vive nel disagio.

Pensi si possa trovare incoraggiamento attraverso i classici della letteratura? Quali sono i modelli letterari più in voga fra i detenuti?

L’aspetto della scrittura in carcere richiama necessariamente tanti casi di letterati italiani costretti nella stessa condizione nei momenti drammatici delle loro vite, da Campanella a Machiavelli, da Pellico a Bruno. Ognuno di questi ha prodotto durante la detenzione e alcuni di loro erano rinchiusi nello stesso posto contemporaneamente: incredibile quanto la Controriforma abbia influito su tutta la nostra cultura e abbia minato la libertà di espressione. Questo aspetto affascina e incoraggia molto gli studenti, che decisamente si immedesimano in queste figure e nella loro lotta continua per non essere messi a tacere, per la dignità con la quale hanno continuato a scrivere e a non abbassare la testa mai contro i poteri forti. Consolazione, ancorché magra, per chi è dentro nel 2017 e scrive e va a scuola per avere una chance in più di trovare serenità.

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