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Gemitaiz: “Si fa musica solo per arrivare primi, non amo un disco rap da anni. Il mondo? È horror, dovevo scriverlo”

“Elsewhere” di Gemitaiz è un racconto di rottura: “Ultimamente è tornato molto questo alone di male, dettato principalmente qui in Italia dalla classe politica, soprattutto nel modo in cui viene percepito e trattato chi lavora”
A cura di Vincenzo Nasto
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Gemitaiz, via Getty Images
Gemitaiz, via Getty Images

Il ritorno di Gemitaiz con "Elsewhere" non è partito nel migliore dei modi. Solo qualche settimana fa, le polemiche per le accuse di un producer avevano, in minima parte, intaccato il racconto dell'album progettato dal rapper romano. In maniera più netta rispetto al recente passato, prende una posizione anche nella musica, distanziandosi dalla natura omologante del rap italiano in questi ultimi anni: "Sono stanco che la musica, almeno qui in Italia, venga trattata come un processo per arrivare al primo posto in classifica. Dopo anni in cui si è ragionato in questo modo, mi ritrovo nella posizione di dire che non mi piace niente, nemmeno un disco che è uscito nel rap italiano".

Ma non solo, perché l'obiettivo e l'urgenza di "Elsewhere" è diventare un disco di rottura: "Ultimamente è tornato questo alone maligno, dettato principalmente qui in Italia dalla classe politica, soprattutto nel modo in cui viene percepito e trattato chi lavora. Ma il problema è anche di chi vota e poi si lamenta che non viene pagato abbastanza: hai appena votato quelli che ti vogliono pagare il meno possibile". Poi il futuro da indipendente che probabilmente lo vedrà anche in panni diversi: "Magari tra cinque anni cambio idea e faccio un disco dove rappo solo sull'elettronica". Qui l'intervista a Gemitaiz.

Come nasce "Elsewhere"? 

Volevo partire da questo concetto di altrove, di diversità: musicalmente ho voluto fare qualcosa che si staccasse completamente dalle uscite attuali.

E dove nascono le ricerche?

Durante un viaggio in Polonia, ho preso il libro di un fotografo (Zdzisław Beksiński) che raffigurava una persona in piedi con il cappuccio in cui non si intravedeva il volto. Dietro di lei, un ritratto paesaggistico. Mi ha incuriosito che non si riuscisse a definire allo stesso modo né chi fosse la persona, né dove stesse.

Una sorta di fuga verso l'altrove: cosa ti allontana maggiormente dalla realtà odierna?

Non ho mai seguito molto le logiche di mercato: negli anni ho sempre fatto attenzione a tutto, perché fa parte del lavoro. In questo senso, "Elsewhere" è il tentativo di eliminare qualsiasi legame con ciò che la gente si sarebbe aspettata.

Aspettative molto alte, soprattutto in un momento in cui "l'omologazione paga".

Sono stanco che la musica, almeno qui in Italia, venga trattata come un processo per arrivare al primo posto in classifica. Dopo anni in cui si è ragionato in questo modo, mi ritrovo nella posizione di dire che non mi piace niente, nemmeno un disco, che è uscito nel rap italiano.

Qualcosa in cui non riesci a rivederti?

Io non sono nemico dei giovani, della trap o meno. Personalmente,  sono anni che non sento un disco di rap italiano che mi sia piaciuto. Sono partito da questo, dal voler fare un disco che mi catturi e trasmetta qualcosa in più rispetto a ciò che ho già fatto in passato.

Qual è stata l'urgenza maggiore?

Non voler scrivere un disco in cui fingo che vada tutto bene. Sia dal punto di vista personale, sia generale.

In che senso?

Credo sia sotto gli occhi di tutti che il mondo è in una situazione horror. Non credo sia una situazione recuperabile e fare un disco in cui non si trattano determinati temi, per me, era inutile adesso. Negli ultimi anni comunque devo dire che la vita è andata bene, la musica è andata bene, i concerti sono andati bene e sono stato capito dal pubblico. Ma ora non è più abbastanza. Non mi piace sentirmi in una posizione da privilegiato che non si espone o non si batte per determinati argomenti.

Un esercizio difficile quello di far parte dell'establishment e allo stesso tempo rifiutare l'atteggiamento dominante.

Questo metodo individualista di percepire tutto per me è pesante. Con le persone con cui vivo e condivido la musica o la vita siamo tutti d'accordo: il minimo che uno possa fare è cercare di esporre quello che non va.

Cosa ti preoccupa di più in Italia?

Ultimamente è tornato questo alone maligno, dettato principalmente qui in Italia dalla classe politica, soprattutto nel modo in cui viene percepito e trattato chi lavora. Ma il problema è anche di chi vota e poi si lamenta che non viene pagato abbastanza: hai appena votato quelli che ti vogliono pagare il meno possibile.

Un atteggiamento che per te è estraneo?

No, mi ci metto in mezzo anche io. Non ho votato per tanti anni, pensando che non mi fregasse nulla di ciò che accadeva in politica. Mi faceva schifo tutto. Poi ho capito che esistono categorie differenti: c'è sempre chi è meno peggio degli altri, come c'è chi è il peggiore di tutti. È stata una sveglia che mi sono dato a livello personale.

C'è stato un momento in cui hai pensato che questo paese non facesse più per te? 

Andare a vivere fuori è sicuramente una roba che uno prima o poi fa. Non denigro l'Italia, lo dico sempre: siamo fortunatissimi a vivere qua. Io sono di Roma, un posto pazzesco dove nascere e crescere. Uscire dall'Italia è un desiderio legato alla mia voglia di riuscire a vivere la parte quotidiana, normale, umana, in maniera più semplice. Vivo ancora nel quartiere dove sono cresciuto e non ho mai avuto neanche l'anticamera del cervello di avere un bodyguard o qualcuno che gira sempre con me. Quella cosa non mi piace. Non ho otto anni, la babysitter non mi serve.

Cosa ti spaventa invece?

Non ho mai pensato di lasciare l'Italia solo perché "l'Italia è una merda". Il governo fa schifo, ma anche negli altri posti non è tanto meglio. Essendo qua e venendo dalla nostra storia, vedere che si ripropongono sempre le stesse cose avvilisce, ma uno può sempre sperare che vada tutto per il meglio.

"Elsewhere" vuole essere un disco di rottura?

Sicuramente c'è questo messaggio e desideravo che il disco venisse percepito così. Poi sono convinto che ci siano un sacco di artisti che fanno dischi di rottura, come vogliono loro e senza logiche di mercato.

Ti stai avviando verso il tuo futuro da indipendente.

Non ho più niente da dimostrare a nessuno: anche le minime paranoie dei dischi passati adesso sono state messe da parte. La risposta del pubblico nei live che ho fatto in questi anni mi ha fatto capire che non ho bisogno di appartenere per forza al mainstream. Ovviamente se un pezzo va in radio sono contento, ma sono soddisfatto del pubblico che ho e di come percepisce i miei dischi.

C'è qualcosa che ti ha frenato in passato?

Non rinnego il passato, anzi non cambierei una virgola, ma è arrivato il momento in cui voglio fare tutto da solo. Ciò che farò sarà meno macchiato e avvelenato da tutto quello che gira intorno all'industria musicale.

Quanto coincide, da artista, il racconto del pubblico rispetto all'influenza subita dagli artisti dalle loro etichette?

Al contrario di quanto la gente possa pensare, il grande pubblico è convinto che se sei un artista affermato (major o non major) tu sia costantemente seguito come se fossi un bambino che non sa bere da solo. Ma non è vero. O meglio, c'è chi fa i dischi così e non biasimo nessuno, ma non è come li faccio io.

E cos'altro pensi che il pubblico non abbia capito?

Sono tutti saccenti, soprattutto in Italia, dove la gente pensa di sapere tutto quando non sa un cazzo di niente su come si fa un disco, come si scrive un pezzo, come si produce. È un'idea distorta. Io personalmente non ho mai dovuto discutere con nessuno di niente artisticamente e questa credo sia una grande svolta, non essere incappato in contratti discografici major fin dall'inizio.

Come si arriva ad "Apatia"?

È stato l'ultimo pezzo. Ho passato un lungo periodo in cui ho ascoltato chitarre, e quando ho beccato quel sample, ho pensato che sarebbe stato perfetto per ciò che avevo in mente. Anche se il disco era già chiuso.

In che senso? 

Il disco era già chiuso e la canzone è stata aggiunta nelle ultime due settimane.

Si notava la chiusura del cerchio in "Time Machine", in questo senso. Ha toccato anche te il filone nostalgico o cerchi di non guardare troppo al tuo passato, soprattutto musicale?

Sono molto felice di tutto quello che ho fatto e di come sono andate le cose. Ho provato a essere coerente con me stesso, ma dopo vent'anni è inevitabile che un artista voglia sperimentare e scoprire altre cose.

Credi che il tuo disco da indipendente possa essere ancora un album rap o si potrà provare una direzione elettronica?

Allora, io musica elettronica ne faccio, ne suono dal vivo e ne produco anche. Però i dischi di Gemitaiz saranno i dischi di Gemitaiz. Le due cose sono scisse. Per quanto mi piaccia da morire la musica elettronica, mi piace cantare sulle cose organiche. Poi non si può sapere, magari tra cinque anni cambio idea e faccio un disco dove rappo solo sull'elettronica. Però sono molto affezionato al tipo di sound "suonato". Se metti dei pezzi di "QVC" uno dopo l'altro cambia poco a livello musicale. Cambia il mio approccio, ma la mia idea di bellezza musicale non è mai cambiata: quelle influenze, quelle armonie, sono il mio modus operandi.

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