
In questi ultimi tempi sempre più artisti – da Vasco Rossi a Ghali, Marco Mengoni ed Elisa – stanno scegliendo di esprimere la propria solidarietà pubblica alla causa palestinese. I cantanti sono personaggi che hanno un megafono importante tra le mani, alcune volte lo usano per abbracciare battaglie che riguardano diritti civili, bullismo, bodyshaming, altre invece una causa come quella contro la guerra, ma non in maniera astratta, bensì prendendo la Palestina come esempio contro tutti i popoli vessati. In questi ultimi mesi, infatti, sono svariati gli artisti che hanno preso pubblicamente posizione contro il Governo israeliano, sia in Italia che all'estero, come dimostrano le polemiche nell'ultimo festival di Glastonbury per Kneecap e Bob Vylan.
Nei giorni scorsi artisti come Ghali, Daniele Silvestri, Margherita Vicario e Gemitaiz hanno partecipato alla manifestazione pro Palestina Non in mio nome che si è svolta a Roma, altri, come Levante e Fiorella Mannoia – probabilmente la più attiva quotidianamente a sostenere la causa palestinese -, usano quotidianamente i social per la causa, si organizzano concerti ad hoc come Nessun dorma, mentre altri cantanti, come Marco Mengoni, Vasco Rossi, Elisa hanno sventolato bandiere palestinesi sui palchi dei loro concerti, chiedendo la fine dell'occupazione israeliana e in generale usando quel pretesto per ribadire un no, più esteso, alle guerre. Una scelta che, in generale, porta a una polarizzazione della critica nei loro confronti.
Perché stare zitti ripaga in termini di critiche negative, ci si tiene buoni un po' tutti, mentre prendendo parte alla discussione – in un senso o nell'altro – si crea certamente una polarizzazione che porta un appoggio ma anche tantissime critiche. Il problema, però, è che il supporto di questi artisti viene strumentalizzato, come succede anche nel dissenso quotidiano, per cui se chiedi la liberazione della Palestina sei antisemita (no, non è così) o sei un supporter di Hamas e del terrorismo (no, non è neanche così). Insomma, pavlovianamente si viene accusati di non aver solidarizzato con le vittime del 7 ottobre, morte a causa di un attacco terroristico, esecrabile e inaccettabile, dimenticando, però, che la questione israelo-palestinese va avanti da un secolo. Morti compresi.

E soprattutto che ai mille morti causati dall'attacco di Hamas in Israele si sommano le decine di migliaia di morti civili causati dal contrattacco israeliano, al punto da portare la Corte Internazionale di Giustizia a chiedere di evitare un genocidio, termine che sempre più viene usato per descrivere ciò che sta accadendo in Medio Oriente. Ovviamente gli artisti italiani non incitano alla violenza, bensì chiedono la fine degli attacchi a Gaza e in Cisgiordania, la fine di questo massacro che i Governi europei – e alcuni media – evitano di guardare girandosi dall'altra parte, salvo accusare chi critica a voce, da un palco, di violenza e terrorismo.
Quello che sta avvenendo in Gran Bretagna, per le esibizioni di Kneecap e Bib Vylan a Glastonbury è sintomatico, benché la questione sia diversa da quella italiana. Da mesi i Kneecap, band rap irlandese, sono nell'occhio del ciclone per le loro posizioni pro Palestina e anti israeliane e il cantante Liam Óg Ó hAnnaidhè anche stato accusato di terrorismo per aver inneggiato a Hezbollah durante un concerto. I Bob Vylan, invece, hanno scatenato un putiferio non tanto per aver gridato Free Palestine dal palco, quanto per aver incitato alla morte di IDF, le forze di difesa israeliane. Una contestazione dura che ha portato alle critiche del Primo Ministro britannico, il ritiro del visto da parte degli Usa e le proteste di Israele che attraverso la sua Ambasciata ha criticato l'esibizione.

Insomma, quello che è sempre più assurdo è che le parole – talvolta anche provocatorie se non violente, certo – per certi Politici, per gli organizzatori di Festival e alcuni media, contino più dell'uccisione, quella vera, reale e continua di migliaia di persone, compresi tantissimi bambini (senza contare un numero enorme di feriti). Perché è facile criticare il dissenso, le bandiere palestinesi che sventolano, il Free Palestine, più difficile è parlare di quella violenza o, addirittura, usare il termine genocidio, perché a quel punto, come scrive Omar El Akkad in "Un giorno tutti diranno di essere stati contro", bisognerebbe intervenire sul serio, fattivamente, e purtroppo non c'è alcuna volontà che ciò possa accadere:
(…) Non si è mai pensato che fosse sufficiente definire un genocidio: si è obbligati ad agire. Quando quello che sta succedendo sarà abbastanza lontano nel tempo, tutti si chiederanno sbigottiti come mai si è permesso che accadesse. Ma per ora è molto più sicuro voltarsi dall’altra parte, tenere la testa bassa, controllare regolarmente gli equilibri della società evoluta per capire se è ancora problematico affermare quello che per la coscienza è sempre stato chiarissimo.
