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80 anni fa moriva D’Annunzio: la sua poesia, gioco audace che ha cambiato la lingua italiana

Sono molti i neologismi coniati dal poeta pescarese nella perenne ricerca della purezza e della perfezione linguistica: solo così il vero poeta, diceva, può diventare “inimitabile”.
A cura di Federica D'Alfonso
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Gabriele D'Annunzio nel suo studio.
Gabriele D'Annunzio nel suo studio.

La vita del vero intellettuale deve essere inimitabile e “spettacolare”: uno spettacolo che Gabriele D’Annunzio ricercò per tutta la vita attraverso la poesia e lo sfarzo del linguaggio. Le parole divennero per lui le armi privilegiate nella dura conquista delle più alte vette della Bellezza e della fama. Una scrittura multiforme la sua, che dalle dolci allegorie dell’Alcyone è capace di passare ai rudi e roboanti discorsi politici, passando attraverso il canto degli antichi eroi delle Laudi o il suadente racconto erotico. Ma D’Annunzio fu anche abilissimo a giocare con le parole di tutti i giorni, inventandone alcune che, a distanza di 80 anni dalla sua morte, sono entrate a far parte del nostro vocabolario quotidiano.

Le parole, specchio di virtù

Il raffinato cultore dell’estetismo considerava l’esperienza poetica come un privilegio superiore, e la lingua come uno strumento potente di propaganda di se stesso: tenace sperimentatore e raffinato filologo, il poeta pescarese fu anche profondo conoscitore dei meccanismi simbolici della lingua, riuscendo a trasformare le parole in suoni, e i suoni in parole.

Fu sua l’idea che l’automobile dovesse essere “femmina”: nella fitta corrispondenza con Giovanni Agnelli il fantasioso condottiero della parola spiega come l’invenzione abbia “la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza”. Così come maschio, fiero e orgoglioso doveva essere “il” Piave: fino al 1918 il fiume veniva declinato al femminile ma, dopo la vittoria italiana durante la Grande guerra, D’Annunzio decise che le qualità femminili ben poco si adattavano a quel luogo simbolo di audacia e patriottismo.

Sentimenti che non dovevano restare estranei nemmeno al gioco del calcio, di cui il poeta era fortemente appassionato: nel 1920, durante una partita disputata fra militari e civili nella città di Fiume, gli italiani vestirono per la prima volta la maglia azzurra decorata da uno “scudetto” con i colori della bandiera italiana. Oltre alla patria, “famiglia” e “fratellanza” erano altre due cose alle quali il Vate non poteva rinunciare: quale miglior modo di celebrarle se non quello di coniare una nuova parola che le racchiudesse entrambe? È così che nasce “fraglia”, oggi usato da molte associazioni veliche italiane.

D’Annunzio e le donne

Amante delle donne, D’Annunzio si divertì addirittura ad inventare per loro dei nuovi nomi, come quello di Ornella, oggi grandemente utilizzato, e Cabiria: quest’ultimo è caduto, fortunatamente, in disuso, ma resta celebre in quanto legato ad uno dei film che il poeta contribuì a realizzare. È inoltre alla corrispondenza con le sue numerose amanti che si deve l’espressione “tenere a mente”, frequentemente utilizzata nei biglietti d’amore indirizzati alle sue donne.

Il dialetto come strumento di “marketing”

D’Annunzio abbandonò molto presto il suo dialetto d’origine: un abbandono da un lato forzato, a causa dei continui trasferimenti fin dalla gioventù, dall’altro voluto per non precludere alla sua poesia la strada verso la fama nazionale. Della produzione dialettale di D’Annunzio si hanno pochi documenti, tuttavia il poeta seppe sfruttare anche l’idioma abruzzese come strumento, diremmo oggi, di marketing: quando nel 1920 Luigi D’Amico produsse il suo primo “parrozzo”, un dolce tradizionale ancora oggi simbolo della regione, fu D’Annunzio a promuovere la nuova impresa con un curioso madrigale:

È tante ‘bbone stu parrozze nove che pare na pazzie de San Ciattè…devente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce.

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