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Borse, il rialzo è solo una bolla?

Borse ormai “in bolla” e mercati a rischio di un’implosione che farebbe più danni di quelli provocati dallo sboom dei mutui subprime nel 2007? Forse, ma anche no: in realtà il pericolo, non immediato, esiste ma al momento non ci sono soluzioni migliori a quelle di irrogare liquidità a pioggia in assenza di riforme strutturali che non vengono varate da nessuno…
A cura di Luca Spoldi
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Le borse salgono solo perché drogate dalle banche centrali: è la tesi che ripetono, come un disco rotto, un numero di analisti e commentatori preoccupati, suppongo, delle ricadute che su “main street” (l’economia reale) potrebbe avere una caduta rovinosa di Wall Street se la bolla della liquidità “pompata” sui mercati del credito in questi anni da Ben “helicopter” Bernanke dovesse improvvisamente esplodere. Il timore è sensato visto che il banchiere centrale americano, in procinto di lasciare il timone nelle mani del suo numero due, l’economista Janet Yellen (che da parte sua si è già premurata di rassicurare che non ha intenzione di cambiare un bel niente nell’immediato), ha iniettato sui mercati qualcosa come 3.038 miliardi di dollari portando l’attivo totale di bilancio della Fed miliardi di dollari contro i “soli” 869 miliardi toccati a inizio agosto 2007, prima che esplodesse la crisi dei mutui “subprime” e che collassassero Bear Stearns e Lehman Brothers.

Tuttavia per il momento provare a mettersi contro il trend rialzista dei mercati è esercizio masochistico più che indice di razionalità economica, perché semplicemente la Federal Reserve, pur impegnata in un esercizio che sembra sempre più quello di una impossibile quadratura del cerchio dovendo comunque cercare di preparare il mercato all’idea che prima o poi la “droga” (ossia gli acquisti di bond sul mercato, che proseguono attualmente al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese creando altrettanta nuova liquidità) dovrà diminuire e poi azzerarsi, senza che questo porti ad un rialzo dei tassi di mercato, per statuto deve mirare a contenere l’inflazione (in una finestra dell’1%-2% annuo che rischia di essere forata al ribasso più che al rialzo, in America come in Europa, specie ora che la distensione in Medio Oriente sta riportando il prezzo del greggio su livelli meno elevati di quelli visti nell’ultimo paio d’anni) e al contempo ottenere la massima crescita possibile così da garantire condizioni di pieno impiego ovverosia azzerare per quanto possibile l’output gap.

A complicare il discorso, il concetto di output gap è di per se sfuggente, dipendendo da una voce, la crescita potenziale del Pil, che dipende a sua volta da una miriade di fattori determinati solitamente attraverso equazioni econometriche tese a misurare la massima crescita potenzialmente possibile, nel lungo periodo e in assenza di inflazione (ovvero in presenza di un’inflazione al di sotto della soglia tollerata, per la Fed come per la Bce pari al 2% annuo) al netto della componente ciclica e delle misure di bilancio “una tantum”. Come dovrebbero sapere almeno i laureati di economia, ogni paese ha le sue metriche: nel caso europeo elaborate sulla base dei risultati di un gruppo di lavoro sugli output gap costituito all’interno del Comitato di politica economica del Consiglio europeo, e dunque inevitabilmente soggetti a compromessi tra i vari paesi membri, nel caso degli Stati Uniti oltre alla versione dell’ufficio studi della Federal Reserve sono state proposte misure alternative da parte di singole Fed.

Secondo studi recenti tra cui uno di Reifschneider, Washer e Wilcox della stessa Federal Reserve, negli Usa la crescita potenziale del Pil “è circa il 7% al di sotto della traiettoria su cui appariva essere prima del 2007”, a causa in particolare del fatto che “una porzione significativa del danno recente dal lato dell’offerta era plausibilmente endogena della debolezza della domanda aggregata”e questa “endogenità dell’offerta rispetto alla domanda fornisce una forte motivazione per una vigorosa risposta di politica monetaria a fronte di un indebolimento della domanda aggregata”. Ossia, in soldoni: la crisi esplosa nel 2007 ha cambiato tutte le regole del gioco (se non ve ne foste ancora accorti), anche perché nel frattempo stanno cambiando i rapporti di forza tra le varie economie mondiali con l’affermarsi dei “brics” ai danni di Europa e Stati Uniti (mentre il Giappone solo grazie a nuove misure espansive sta cercando di riacciuffare il treno e non è detto ce la faccia).

Quello che non cambia, in realtà, è che alla fine in un sistema sempre più interconnesso gli stimoli sempre provocano delle reazioni. Se le reazioni non si manifestano dove e come sarebbero attese dalle banche centrali (una ripresa della crescita attraverso un rialzo della crescita potenziale e una riduzione dell’output gap) c’è il caso che ve ne siano di impreviste e/o indesiderate, ad esempio una crescita dei prezzi degli immobili in Cina, ma anche nelle principali città del mondo dove i “nuovi ricchi” del pianeta vogliono trasferirsi o comunque investire i propri capitali (che se investiti in titoli di stato, i cui rendimenti sono compressi dall’azione delle banche centrali, renderebbero poco o nulla). Il che spiega anche perché pure a Londra o a Berlino, piuttosto che a New York, i prezzi degli immobili di lusso sono tornati a salire mentre contemporaneamente la classe media è sempre più martoriata e i prezzi delle case “popolari” faticano a stabilizzarsi e semmai sono a rischio di ulteriori discese (specie in paesi come l’Italia dove in assenza di crescita la pressione fiscale sta iniziando ad aggredire il risparmio, compreso quello investito in mattoni).

Così no, le borse non sembrano particolarmente a rischio e probabilmente il rialzo potrà durare ancora un anno, o due, o finanche tre. Ma la situazione anziché risolversi a me sembra ogni giorno un poco più complicata, al punto che prima o poi qualcuno potrebbe trovare suggestiva l’ipotesi (che personalmente non reputo una soluzione ma una iattura) di scegliere la strada dei “default” più o meno controllati. Che poi i soli default “più o meno” controllati, in Argentina e Grecia, abbiano prodotto solo danni a creditori e contribuenti coinvolti distruggendo ricchezza questo sembra importare i teorici del “bruciamo la bolla prima che la bolla bruci noi”. A meno che, semplicemente, la soluzione non esista e il problema che le banche centrali stanno provando ad affrontare sia impossibile, come la quadratura del cerchio, in assenza di riforme politiche profondi per loro natura possibili solo in periodi di robusta crescita (naturale o artificiale che sia) o di grande depressione, con ben differenti distribuzioni di oneri ed onori nei due casi, naturalmente.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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