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Tony La piccirella, italiano in missione verso Gaza con la Freedom Flotilla: “Rischieremo, ma siamo pronti”

Poche settimane dopo che le forze israeliane hanno sequestrato in acque internazionali la Madleen, arrestato e deportato illegalmente il suo equipaggio, Handala partirà domenica da Siracusa, tentando nuovamente di raggiungere le coste della Striscia. A bordo della nave Fanpage.it incontra Tony La Piccirella, l’unico italiano che prenderà parte alla missione.
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Tony Lapiccirella
Tony Lapiccirella

“Handala” si legge sulla fiancata sinistra di un piccolo ex peschereccio norvegese, oggi trasformato in una delle navi della Freedom Flotilla Coalition – la rete internazionale che dal 2010 tenta di rompere il blocco navale israeliano imposto sulla Striscia di Gaza.

Poche settimane dopo che le forze israeliane hanno sequestrato in acque internazionali la Madleen, un’altra nave della Coalition, arrestato e deportato illegalmente il suo equipaggio, Handala partirà domenica da Siracusa, tentando nuovamente di raggiungere le coste della Striscia.

A bordo della nave incontriamo Tony La Piccirella, l’unico italiano che prenderà parte alla missione.

Può presentarsi?

Mi chiamo Tony, ho 35 anni e vengo da Bari. A Bari ho fatto parte di movimenti di lotta per il diritto alla casa, contro la speculazione edilizia e per il diritto alla città. Come tanti del Sud, a un certo punto me ne sono andato: sono andato a Berlino. Poi mi sono spostato in altre città europee e infine sono arrivato in America. L’anno scorso sono tornato in Puglia e sono entrato in Freedom Flotilla Italia. È stato così che ho deciso di aderire a questa missione: ci ho riflettuto per un anno, ma adesso penso che sia il momento.

Cosa l’ha spinta a prendere parte a questa missione?

Ho scelto di far parte di questa missione perché credo che azioni come questa riescano a rompere la cappa di impotenza che media e governi costruiscono intorno ai movimenti e alle persone. I nostri governi ignorano le proteste per la Palestina, o peggio, le reprimono. E invece azioni simboliche, politiche come questa servono a scuotere il presente, a uscire dalla dimensione dello spettatore passivo. Questa missione ha a che fare con la solidarietà concreta verso il popolo palestinese che sta resistendo nella striscia di Gaza, ma è anche un modo per far riflettere su quello che viviamo noi in Europa. Il genocidio in corso è possibile solo grazie alla complicità dei nostri governi. E oggi, mentre in Italia si firmano leggi per il riarmo, è più urgente che mai prenderci la responsabilità di guardare da vicino ciò che accade a Gaza.

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Qual è lo scopo di questa missione?

L’obiettivo è duplice: da una parte portare visibilità alla causa palestinese e rompere il blocco navale imposto da Israele su Gaza, dall’altra fare pressione politica immediata ai nostri governi, soprattutto adesso dopo l’attacco all’Iran e l’ulteriore escalation a Gaza.

Porterete anche degli aiuti umanitari verso Gaza?

Sì, porteremo aiuti umanitari, ma in quantità simbolica: medicine, viveri, materiali sanitari. Quello che stiamo realmente portando è solidarietà politica. I palestinesi hanno bisogno dello sblocco dei camion fermi a Rafah, e dell’apertura di un corridoio umanitario, oltre la fine immediata del genocidio in corso. L’obiettivo è forzare l’assedio, non solo consegnare beni.

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Quante persone siete a bordo?

A bordo siamo in 18. Ci sono giornalisti, un team medico, parlamentari, sindacalisti, attivisti per i diritti umani e la crew tecnica. E poi ci sono io, che faccio da ponte tra la coalizione internazionale e quella italiana.

In questi giorni a Siracusa si sta preparando il lancio della nave. Cosa è previsto?

Stiamo organizzando una serie di eventi insieme alle realtà e alle persone locali. Ci sarà una conferenza stampa, panel tematici sulla situazione nel Mediterraneo, sul ruolo del mare come spazio politico, e sull’intersezionalità delle lotte. Coinvolgeremo realtà da tutta la Sicilia e da altre regioni italiane. È una mobilitazione dal basso, partecipata.

L’ultima volta la Madleen è stata bloccata da Israele. Avete un piano nel caso succeda di nuovo?

Sì. La Freedom Flotilla Coalition è attiva da 15 anni, e 36 imbarcazioni sono già state bloccate da Israele. Tutti i membri dell’equipaggio partecipano a un addestramento per rispondere con la nonviolenza a diversi scenari previsti. Sappiamo che stavolta il rischio è maggiore, considerando il contesto di escalation e la complicità attiva degli Stati Uniti. Ma siamo pronti.

Ha paura?

Sì, ho paura. Sarebbe strano non averne. Ma tutte le altre emozioni che sto vivendo ora sono più forti e mi aiutano a gestire la paura. È una paura che non paralizza, ma mi motiva.

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Cosa la spinge, nonostante tutto, a dire: “Lo faccio”?

È difficile da spiegare. Ma vivere tutto quello che accade in Palestina senza poter fare nulla è diventato insostenibile anche sul piano personale, psicologico. Rassegnarsi, accettare che le nostre vite siano in mano a personaggi come Trump, Meloni, Musk, Bezos, mi fa più paura che partire per una missione come questa. Invece, fare parte di qualcosa di collettivo, che cerca di scardinare questa normalità imposta, mi fa sentire nel posto giusto. Con il cuore al posto giusto.

Cosa rappresenta per lei questa missione?

Rappresenta una possibilità. La possibilità concreta di agire. Di aprire uno spazio d’azione e soprattutto di mostrare, anche materialmente, la nostra solidarietà a Gaza.

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