“Quando mi trovai davanti gli occhi chiarissimi di Bossetti”, il generale Lago racconta la sua vita da Ris

Da qualche mese il generale Giampietro Lago ha ripiegato l'uniforme e salutato provette e laboratori, ma la sua vita per oltre trent'anni è stata sui luoghi dei delitti più efferati, dove ha messo la sua competenza scientifica al servizio delle indagini. Quegli anni e quei casi ce li racconta proprio al termine della sua carriera nel Ris: dall'omicidio di Yara Gambirasio ai neonati uccisi e sepolti dalla madre, passando per Nassiriya, ecco di cosa ha voluto parlare davanti alla telecamera di Fanpage.it.
Generale, lei è stato dal 2010 al 2025 a capo del RIS di Parma e prima per circa vent'anni comandante della sezione di biologia del Nucleo investigativo di Roma. Come è nata la sua vocazione?
"A dire il vero, è una vocazione che ho scoperto strada facendo, perché quando ero ragazzo e studiavo era un'idea abbastanza vaga. Solo facendo le cose ci si innamora. Poi c'è anche una ragione tecnica, per cui il caso ha voluto che nell'85 venisse pubblicato questo articolo che per la prima volta dimostrava la possibilità che il dna potesse essere utile e importante per risolvere i crimini. Io ero all'università, facevo biologia e mi ricordo che questa cosa mi colpì tantissimo e cominciai ad approfondire questa idea e combinando questi due aspetti è nato tutto".
Lei ha guidato le indagini scientifiche di alcuni dei più noti casi di cronaca italiana. Qual è quello che l'ha messo più alla prova?
"Il caso che forse più di altri mi ha messo alla prova, per mille ragioni sia tecniche e professionali ma anche proprio psicologiche, di pressioni gestite eccetera, è stato probabilmente l'omicidio di Yara Gambirasio. Alcune delle analisi che sono state fatte in quella vicenda venivano svolte per la prima volta a livello addirittura internazionale. Poi è stata fatta una ricerca, creando per la risoluzione del caso un database immenso, stiamo parlando di circa 20mila prelievi acquisiti. Ci sono state anche tante complicazioni mediatiche, attacchi, accuse…"
In quel caso la genetica è stata fondamentale.
"In quel caso assolutamente sì. Ci sono stati diversi altri elementi che hanno formato delle prove che hanno concorso a supportare l'ipotesi accusatoria contro il prima indagato e poi imputato Massimo Giuseppe Bossetti. Sono state diverse le tipologie di prove tutte coerenti e convergenti, ma senza dubbio il pilastro fondamentale dell'indagine è stato l'aver trovato un profilo genetico maschile su una traccia rilevata nello slip che indossava la ragazza quando è stata trovata cadavere e tra l'altro poi indossando anche i leggins della vittima, in un’analisi fatta in un secondo tempo in maniera indipendente, hanno confermato quello stesso dato, perché evidentemente i due indumenti si sono contaminati uno con l'altro. In quegli anni si stavano facendo delle sperimentazioni per riuscire a diagnosticare dei caratteri somatici dall’analisi del dna, quindi usare il materiale genetico non più ‘solo' per identificare un soggetto ma anche per fornire indicazioni investigative sul suo aspetto fisico".
E ci siete riusciti?
"La traccia da cui partivamo era una traccia complessa, una traccia mista ed era la prima volta che a livello internazionale che si tentava questo approccio su un caso operativo. Siamo riusciti in sostanza a fare una diagnosi, e c'è una relazione agli atti depositata circa due anni prima di individuare fisicamente la persona, in cui avevamo dato un risultato per cui il soggetto maschile a cui apparteneva il nostro dna aveva una probabilità di avere gli occhi molto chiari dell'ordine del 95%, 94.5%. In quella fase erano in ballo due ipotesi investigative ovviamente mutualmente escludenti. C'era per esempio l'ipotesi che l'assassino potesse essere un cittadino nordafricano e chiaramente questo dato rendeva improbabile tale pista. Potete immaginare come ci siamo sentiti quando si è concretizzato l'arresto e abbiamo visto gli occhi chiarissimi di Bossetti".

Alla vicenda, diceva, sono legate anche diverse polemiche.
"Sì, ma anche in questo caso, come sempre, l'accertamento irripetibile sul dna è stato svolto secondo i crismi, avvertendo le parti che erano presenti in quel momento. La parte Bossetti noi non potevamo conoscerla, l'abbiamo scoperta proprio grazie a queste analisi. Se seguissimo il ragionamento e applicassimo gli orientamenti che sembra suggerire questa difesa, dovremmo accettare che la grande maggioranza dei casi risolti con il dna sarebbero ancora avvolti nel mistero. Poi noi quando abbiamo finito le analisi, abbiamo restituito tutto quello che avevamo, non solo gli oggetti analizzati o quello che ne rimaneva, ma anche per esempio il materiale in provette avanzato. Da quel punto in poi ovviamente è il nuovo responsabile che deve rispondere del reperto".
Uno degli ultimi casi che ha seguito è stato quello dei neonati sepolti dalla loro giovane mamma in provincia di Parma. Che scenario si è trovato davanti?
"Inizialmente eravamo abbastanza abbottonati, perché quando venne ritrovato il cadavere del primo neonato nel giardino di Traversetolo noi abbiamo capito abbastanza in fretta che era figlio della ragazza che abitava in quella casa, ma subentrava un problema di tutela e definizione delle persone intorno a questa ragazza e quindi per un po’ di giorni non abbiamo detto nulla perché, avevamo anche bisogno di capire qual era un po’ lo scenario, poi in realtà i familiari non solo non avevano collaborato, ma erano chiaramente all'oscuro di tutto quanto".
Da ultimo, il caso che più l'ha toccata emotivamente.

"Senza dubbio è stato per me il lavoro sia investigativo che identificativo che abbiamo fatto sulle vittime di Nassiriya. È stato emotivamente travolgente, perché uno dei caduti era un maresciallo che era un ragazzo che aveva iniziato questo lavoro insieme a me nel mio laboratorio proprio fianco a fianco ed era stato in tutti quegli anni sempre con me, quindi era una persona a cui ero legato anche affettivamente. E trovarsi poi a gestirne i resti è stata dura".